In un inizio di stagione dedicato all’ultimo Verdi, a Torino dopo il Requiem è la volta di Otello in un nuovo allestimento affidato alla regia di Walter Sutcliffe, giovane regista inglese al suo debutto in Italia e al suo primo confronto con Otello. E come un debutto da perfezionare deve essere considerato lo spettacolo che ha una buona intuizione che però, anziché essere sviluppata, risulta indebolita da elementi inutili che stridono con le dichiarazioni d’intenti del regista “di andare alle radici del dramma e di eliminare tutto il superfluo”. Sutcliffe pone Otello al di fuori di una precisa ambientazione storica in un contesto scenico evocativo di una situazione di guerra e minaccia, metafora di una situazione psicologica bloccata e senza scampo.
La scena di Saverio Santoliquido, unica per tutti i quattro atti, è costituita da alte mura semoventi formate da sacchi di sabbia affastellati e macchiati di sangue che ricordano le trincee. Le pareti dalle superfici concave e convesse disegnano con efficacia sulla scena una fortificazione vista dal suo interno che comunica un senso di chiusura e asfissia opprimenti. Una situazione da “huis clos” coerente col dramma tutto mentale della gelosia di Otello (le pareti potrebbero essere anche viste come una corteccia cerebrale irrorata di sangue) che giustifica l’assenza della natura, il mare o la magia della notte, non rappresentati ma evocati dalla musica come fossero un incubo o un ricordo. La scena unica favorisce l’unitarietà tipica della tragedia, ma gli elementi “accessori” che vi vengono inseriti, anziché risultare pregnanti, stonano: stride il lezioso gazebo di glicini e prato sintetico dove Desdemona incontra Cassio e Jago siede su di una panchina accanto a Otello attorniati da fiorellini di plastica, immagine incongrua dalla comicità involontaria. Brutte e inutili le controscene che scandiscono le scene di massa (coreografie firmate da Hervé Chaussard): il soldato che si muove a scatti come un indemoniato durante la tempesta, il tableau dei due prigionieri seminudi tenuti al guinzaglio e poi sgozzati, per non parlare dei “fuochi di gioia” delle cortigiane impegnate in coreografie orgiastiche in un tripudio di guêpières che affollano la scena e distolgono dalle fiaccole vere sventolate sulle sommità delle pareti. Alla fine muoiono tutti, a dispetto del libretto anche Emilia per mano di Jago, ma tale licenza aggiunge qualcosa al dramma?
I costumi di Elena Cicorella non migliorano l’impatto visivo: Otello indossa, sotto uno spolverino imbrattato di sangue, una maglia color carne dai tatuaggi tribali stampati, Desdemona sembra una figlia dei fiori in mise da odalisca ricamata e arancione, gli altri indossano in uno strano mix pantaloni mimetici azzurrini e giubbotti da Re Inox.
L’interesse della produzione risiede però nell’esecuzione musicale e nello straordinario Otello di Gregory Kunde, dove eccellenza vocale e capacità d’introspezione scolpiscono a tutto tondo la complessità psicologica del Moro. E’ un continuo sfumare dalla ferocia all’incertezza, dalla fierezza alla lacerazione, che si avverte nell’interpretazione scenica come nel canto mobile e variegato, dove lo slancio (davvero granitico) dell’”Esultate” non ha nulla di muscolare, ma rientra nella definizione di un personaggio che cresce e si illumina di nuove implicazioni a ogni battuta. L’Otello di Kunde è un eroe moderno, lontano anni luce dagli Otelli monolitici tutti giocati sulla forza, nel suo canto sfumato (merito di un eccellente fraseggio) si percepisce il germe di quello che accadrà dopo e così nel duetto d’amore s’insinua la tristezza di ciò che si sta per perdere, nella ferocia omicida sembra aleggiare un dubbio che potrebbe portare a un ripensamento che però non avviene.
Se Kunde è Otello, Ambrogio Maestri non è Jago. Certo, la materia vocale c’è tutta: colore di voce, morbidezza, possanza, stile verdiano, ma il personaggio creato da Maestri non è sufficientemente insinuante e diabolico, sarà forse il retaggio dei tanti Falstaff interpretati, ma vi aleggia un’ironia beffarda che con il Male non ha niente a che fare.
Ci è piaciuta Erika Grimaldi per l’interpretazione moderna e asciutta del personaggio di Desdemona: seppur la voce giovane abbia ancora qualche asprezza, il canto ricco di sfumature fa crescere sotto i nostri occhi un personaggio che diventa il giusto antagonista di Otello.
Nei ruoli minori abbiamo apprezzato il Cassio di Salvatore Cordella dalla bella voce lirica.Non sempre a fuoco l’Emilia di Samantha Korbey. Concludono adeguatamente il cast Luca Casalin (Roderigo), Seung Pil Choi (Ludovico) ed Emilio Martucci (Montano).
Gianandrea Noseda sottolinea la novità novecentesca del capolavoro della maturità verdiana: la direzione lucida e analitica esalta i tratti più cameristici di una partitura che sembra svelarsi in filigrana e di cui, più che massa e spessore, osserviamo il mutevole disegno. La concertazione cameristica giova ai cantanti in un riuscito equilibrio fra voci e orchestra, ma non mancano i momenti di schianto ed esplosione sonora, brevi lampi di livore espressionista destinati a spegnersi in un nulla metafisico. Ottime per affiatamento e precisione le prove dell’Orchestra del Regio e dei cori (Coro del Regio e Coro di voci bianche del Regio e del Conservatorio) preparati da Claudio Fenoglio e Paolo Grosa.
Calorosi applausi alla fine per i tre protagonisti con punte di entusiasmo per Kunde.