La vivacità culturale di Venezia riprende anche così. Da questo Ottone in villa di Vivaldi che fa riaprire al pubblico, insieme ad alcuni concerti, la sala del Teatro La Fenice. Alquanto trasformata, in verità: gli artisti posti nella platea svuotata – la mente corre alla mitica Passione bachiana collocata da Pizzi nel 1985 proprio qui - mentre il pubblico occupa palchi e palcoscenico, a distanza di sicurezza.
Imponente, stagliata sullo sfondo, la carena di un vascello in costruzione di cui si colgono le massicce costole lignee.
Un esordio significativo, anche se in tono minore
Ottone in villa segnò nel maggio 1713 l'esordio teatrale del compositore veneziano, preparato con saggia prudenza in provincia. Vale a dire nel nuovissimo Teatro delle Grazie di Vicenza, seguito da un'unica ripresa al Teatro Dolfin di Treviso nell'ottobre 1729. Seguì poi il lungo oblio, perdurato sino alla Vivaldi Renaissance dei giorni nostri. Alla sua base sta un libretto poco stimolante di Domenico Lalli, che ridimensiona un lavoro di F.M. Piccioli del 1680: trama esile, azione nulla, verseggiare vacuo.
Tra i personaggi spicca quel tontolone dell'imperatore romano Ottone, infatuato della seducente Cleonilla, che non si avvede – malgrado inequivocabili evidenze, e le avvertenze di Decio suo giudizioso consigliere - che la sua bella tresca di buon grado con chiunque le capiti a tiro. Compreso il giovane Caio Silio, il quale è rincorso da Tullia, amante da lui abbandonata, celata sotto le spoglie ambigue del scudiero Ostilio.
Fra equivoci, amori negati e concessi, gelosie e tradimenti, si giunge all'inevitabile happy end, fra il giubilo generale. Con Cleonilla che parrebbe pentirsi (a parole) ma solo per convenienza; ed Ottone che – credendosi savio e magnanimo - impone le nozze tra un recalcitrante Caio e la petulante Tullia.
Poche le pretese in scena
Ottone in villa è un melodramma senza coro, con cinque soli interpreti (tre soprani, un contralto, un tenore) ed uno strumentale ridotto: archi, due cembali, tiorba, basso continuo, due flauti e due oboi ad intervenire di rado. Nessun pezzo d'insieme, il solito susseguirsi di recitatavi ed arie nella partitura revisionata da Eric Cross. Opera di minor interesse nel catalogo del Prete Rosso, contiene un numero esiguo di pagine di autentico rilievo.
Però tutte memorabili: fra esse la beffarda sortita di Caio «Chi seguir vuol la costanza» e l'irruenta, virtuosistica aria di Ottone «Come l'onda» (le ritroveremo entrambe nell'Orlando furioso); il tenerissimo duetto 'con eco' di Caio e Tullia «L'ombra, l'aure» con i flauti a becco dietro le quinte, dalle riminiscenze seicentesche; oppure la languida «Guardami in quest'occhi e senti» ancora di Caio, che prevede una brillante presenza violinistica, sicuramente sostenuta all'epoca da Vivaldi medesimo.
Musica e recitazione in condizioni inusuali
Concertatore raffinato, tra i più competenti e validi in questo repertorio, Diego Fasolis ha radunato, scegliendone i membri tra le file dell'orchestra della Fenice, un ensamble barocco più che adeguato: ben organizzato nella strumentazione, flessuoso nel fraseggio, dal suono calibrato e pieno.
Anche il cast radunato ha risposto in pieno le attese: l'eccellente Sonia Prina impersonava Ottone, Giulia Semenzato la fatua Cleonilla, Lucia Cirillo un espressivo Caio, Michela Antonucci l'androgino Ostilio/Tullia, Valentino Buzza il saggio Decio. Peccato che l'acustica fosse penalizzata dall'ingrata dislocazione di strumenti, e che le voci fossero costrette a girarsi sovente per farsi ascoltare a 360°.
Della regia, poco da dire. Qualche accenno coreografico rivela la provenienza del regista Giovanni Di Cicco dal mondo della danza; nella scarna scenografia fissa che dobbiamo a Massimo Cecchetto, gli obblighi di distanziamento hanno portato ad un allestimento di fatto semi scenico, quindi privo di un vero svolgimento drammaturgico. Anche per la fragilità della trama, crediamo non si potesse fare di più. Bruttini i costumi di Carlos Tieppo, d'una strampalata modernità. Ben studiate le luci di Fabio Berettin.