Lirica
PAGLIACCI / AL MULINO

Parte 1. La regia di Garcia Sierra esalta i “Pagliacci” entusiasti, stavolta in accoppiata inedita

Pagliacci
Pagliacci © Fabio Parenzan

Benché titolo lirico intramontabile oltre che ultra popolare, Pagliacci di Ruggero Leoncavallo mancava dal Teatro Verdi di Trieste sin dal marzo 2003, allorché venne presentato nella tradizionale accoppiata con la Cavalleria rusticana di Mascagni. Oggi il tandem di queste due “gemelle siamesi” dell'opera, come vennero argutamente definite, non è più di moda; e nuovi accostamenti sbrigliano la fantasia di direttori artistici e registi, dando vita a scelte talvolta invero poco comprensibili.


La scelta del Verdi di Trieste ci pare però particolarmente azzeccata perché si è scelto il mai prima eseguito Al mulino, giovanile atto unico di Ottorino Respighi e Alberto Donnini che non è di molto posteriore al capolavoro del fertile compositore napoletano, ed ha non pochi punti di contatto con esso. Soprattutto, l'impronta prettamente verista, ed una strumentazione esuberante. Leoncavallo, però, si mostra un po' più rispettoso delle corde vocali dei suoi cantanti.

Un'ottima regia

Pagliacci ci viene presentato in un nuovo, interessante apparato scenico curato da Victor Garcia Sierra – un valido passato e presente da baritono, en passant - che tre anni fa ci offerse sempre al Verdi un garbato Elisir d'amore ispirato ai quadri ed ai personaggi di Botero.


L'atmosfera impressa dalla pirotecnica scenografia di Paolo Vitale, carica di vivaci annotazioni, e dai costumi fantasiosi di Giada Masi - giocando, fra l'altro, sul bel contrasto fra i colorati abiti dei protagonisti ed il nitido candore di quelli dei paesani - anche in questo caso suggerisce un climax circense. Ed ugualmente da sagra paesana e da luna-park- vedi la ruota panoramica che gira inarrestabile sullo sfondo - con una venatura felliniana, se vogliamo, per i palesi richiami al cinema Anni '50. 

Ed alla fine lo spettatore si trova di fronte ad uno spettacolo irreale e favolistico, ben costruito e ben curato nei particolari, nel quale il regista venezuelano immette un intenso afflato poetico capace d'infondere ai personaggi profonda umanità. Uno spettacolo privo di retorica, peraltro, che corre veloce verso l'epilogo.

Un'ottima direzione

Il direttore Valerio Galli ha una sua forte personalità, idee ben chiare, e si mostra concertatore attento e di ampie vedute. Ci prendono, questi suoi Pagliacci: la dinamica è ricca; il gioco dei contrasti, ben curato; l'atmosfera generale, convulsa ed incandescente. E se qualche licenza nel testo forse se la prende, è piegata al dramma e si risolve in efficaci momenti orchestrali.

Il cast viene costruito con intelligenza. Il sipario si apre su Devid Cecconi, che canta con felice espressività il Prologo (riuscito poi l'impegnativo la bemolle); dopo, ovviamente, sarà un inappuntabile Tonio. Il tenore franco-tunisino Amadi Lagha è un Canio un po' un muscolare, se vogliamo, ma la voce è lucida, fluida, squillante; e nondimeno sa appare efficacemente tragico. Valeria Sepe, voce solida e dal bello ed uniforme colore, si mostra una trepidante, spontanea Nedda. Il tenore macedone Blagoj Nagoski è un ottimo Beppe; il baritono coreano Min Kim, un ardente Silvio.

Visto il 12-06-2022
al Verdi di Trieste (TS)