Anche quest’anno il Filarmonico di Verona ripropone al suo pubblico il bell’allestimento zeffirelliano di Pagliacci che, quasi in accordo con quanto contemplato dallo stesso Leoncavallo che aveva previsto per l'opera un'ambientazione a lui contemporanea, suggerisce una collocazione della vicenda in una degradata periferia di una metropoli italiana negli anni terminali del secolo scorso. Dopo il Prologo il sipario si alza su una scena imponente che riempie tutto il palcoscenico. La facciata di un enorme palazzo popolare, percorsa per tutta la sua lunghezza da una schiera di ballatoi, si affaccia su una piazzetta ove svettano il solito Bar Centrale e un'officina che affigge sui propri battenti la pubblicità degli pneumatici Pirelli. La cura del dettaglio è impressionante, dalle finestre aperte si intuisce l'interno degli appartamenti con i lampadari e i televisori accesi. La roulotte su cui arriva la troupe teatrale è vera; non mancano gli animali, come il barboncino bianco con collarino rosso e l'asinello; dalle ringhiere sventolano panni stesi al sole. Di contro la via è affollatissima, traboccante di una popolazione quanto mai colorata che si aggira senza sosta nella confusione tipica di luoghi come questo: saltimbanchi, pagliacci, carabinieri, travestiti e prostitute, bulletti di quartiere, ragazzi in vespa, sposi novelli. Di tutti costoro, se si osserva con cura, si possono distinguere in sottofondo le vicende: un'umanità forse degradata ma sempre universale. Il caos si acquieta durante il duetto fra Silvio e Nedda, mentre il primo atto si chiude sulle note di ‘Vesti la giubba’ con la discesa dall'alto di un manifesto raffigurante il volto di un clown.
Dopo l'intervallo, al levarsi del sipario, i manifesti arriveranno a ricoprire l'intera facciata del palazzo, mentre la folla si spintonerà nella piazza per assistere in posizione privilegiata allo spettacolo. Il dramma finale si consumerà proprio in mezzo a questa massa di persone assiepate su alcune lunghe panche che, allibite, si troveranno, loro malgrado, coinvolte in un duplice omicidio, che osserveranno senza intervenire fino all’arrivo dei carabinieri giunti tempestivamente ad arrestare il colpevole. Lo spettacolo nel suo complesso, seppur pregevole per la cura dei dettagli e dei movimenti, finisce però talvolta per risultare un poco kitsch e, in alcuni punti, favorisce la distrazione dello spettatore che, attratto dalle azioni compiute dai vari tipi umani che brulicano sulla scena, perde di vista i protagonisti.
Nel complesso buono il Canio di Rubens Pellizzari: la voce ha un bel colore ed è dotata di grande squillo; dopo un inizio con qualche incertezza, la performance è andata via via migliorando, tanto da risultare sempre più convincente anche da un punto di vista attoriale. Al suo fianco la Nedda di Donata D’annunzio Lombardi, sebbene non ricchissima di sfumature, è parsa corretta e adeguata: la voce è solida in tutti i registri, l’emissione controllata. Bene il Tonio di David Cecconi che ha esibito uno strumento robusto e di tutto rilievo, dal bel colore caldo e dall’ottima estensione. Buon fraseggio per Federico Longhi nei panni si Silvio e una menzione particolare per l’impeccabile Arlecchino di Francesco Pittari.
Lettura musicale di qualità per Valerio Galli alla direzione dell’Orchestra areniana che ha ben sottolineato, sebbene senza stucchevoli eccessi, i toni drammatici della partitura, in un costante crescendo che trova la sua ovvia risoluzione nel tragico finale, sempre in accordo con quella tensione lirica e melodica di carattere popolareggiante tipica del Verismo.