Il teatro di San Carlo è tornato alla piena programmazione, estate e inverno, dopo i restauri che hanno reso la sala di una bellezza da svenimento. Pagliacci viene proposta da sola, senza un abbinamento voluto dalla tradizione e non necessario, come l'occasione napoletana conferma: uno spettacolo completo e compiuto.
La messa in scena è improntata dallo stile e dagli stilemi del regista Daniele Finzi Pasca, che rovescia le tradizionali attese del pubblico e presenta una città di pagliacci, un luogo dove tutti sono vestiti da clown (splendidi, colorati, luccicanti i costumi di Giovanna Buzzi) e dove i protagonisti si disperdono in individualità poco evidenti, anzi caratterizzati da un certo senso di precarietà, di provvisorietà, che fanno più pensare ad assenze che a presenze. Al coro e ai cantanti si aggiungono gli acrobati della Compagnia del regista, che caratterizzano profondamente lo spettacolo: otto figure in sottoveste nera che replicano i gesti di Nedda, dialogano con essa, fanno da sfondo e da elementi di scena. Hugo Gargiulo ha pensato uno spazio vuoto con geometrie bianche e nere che si modificano sul fondale e dove si proiettano le luci precise dello stesso regista con Alexis Bowles. La regia si intreccia e si completa con le crezioni di Julie Hamelin e le coreografie di Maria Bonzanigo. Secondo noi ha una primaria importanza nell'economia dello spettacolo il make up perfetto di Chiqui Barbé.
All'inizio il boccascena è chiuso da un velatino con sopra dipinto un uomo al pianoforte verticale, lo stesso Leoncavallo intento alla composizione della partitura, le cui note svirgolano ai lati. Prima dell'attacco dell'orchestra un momento al pianoforte della partitura introduce l'azione, mentre in trasparenza oltre il velatino si notano i protagonisti in frac e cilindro fra trapezisti e giocolieri. Durante il prologo i protagonisti sono in proscenio, mentre dietro il velatino sfilano clown e pierrot. Canio dirige il coro, sistema i contadini e la folla (peraltro tutti accomunati dal medesimo abbigliamento). L'assolo di Nedda è poeticamente accompagnato da tre acrobati che volteggiano nei cerchi e le impongono di forzare lo sguardo verso l'alto, verso un impossibile altrove: “augelli” che, al contrario del libretto, non volano via e insistono a ripetere le loro piroette nei cerchi sospesi nel vuoto. “Guardare al cielo aiuta a far andare il cuore oltre”, dice Daniele Finzi Pasca nella conversazione con Laura Valente riportata nel programma si sala, corredato da belle foto della messa in scena.
Nel successivo contrasto tra Nedda e Tonio gli acrobati, come un coro greco, replicano le movenze di Nedda, restituendole amplificate. Nedda colpisce Tonio con un colpo di karate, poi si abbandono al duetto con Silvio mentre i cerchi penzolano vuoti e immobili dall'alto come cappi da forca. Nel momento in cui Canio si avvicina gli acrobati cercano (invano) di avvertire Nedda e Silvio. Il palcoscenico è occupato da un tappeto, poi, durante l'aria “Vesti la giubba” il pubblico si rende conto che c'è acqua sul palcoscenico, acqua che diverrà elemento caratterizzante per il prosieguo, mentre lucine penzolano dall'alto e cerchi tornano in varie declinazioni (da hula-hoop a attrezzi artistici).
La scena della commedia è poco chiara, tra trapezisti che pendono e volteggiano, coro schierato ai lati della pedana allagata e protagonisti tra gli schizzi: non appare un vero stacco rispetto al precedente se non per le movenze marionettistiche, meccaniche. Nel finale arriva una pioggia, forse rigenerante, forse travolgente: Canio strappa il vestito a Nedda, quasi mettendone l'anima a nudo. L'acqua si tinge di rosso sangue, è Tonio con una pompetta e schizzare i corpi, a colorare l'acqua: è lui l'artefice del dramma, in fin dei conti. Acqua che pare limpida nella felicità piena dell'amore, acqua venata di dolore quando l'amore è violentemente e involontariamente fatto finire.
Kristin Lewis è una Nedda sognante, stupita, come se fosse in un luogo che non riconosce, come se vivesse in un mondo non suo, sempre assente; la voce ha un bel timbro, intrigante nelle ondate che ne iscuriscono il colore; gli acuti sono incisivi, seppure poco aerei, e una buona tecnica le consente di rendere con espressività la parte, convincendo maggiormente nei momenti lirici e malinconici. Carl Tanner è un Canio dalla voce ampia, maggiormente pregnante nei centri, che potrebbe curare di più la dizione, soprattutto nei fonemi “gl” e “gn” o nelle consonanti “r” e “t”. Dario Solari è un Tonio poco diabolico, esentato dai consueti e abusati stereotipi del personaggio, reso senza particolari difficoltà caratteriali o comportamentali; la voce ha il giusto colore ed è bene usata nel prologo, particolarmente nel registro centrale e con qualche spinta in acuto. Francesco Marsiglia è un Peppe totalmente dalla parte di Nedda, vocalmente corretto. Simone Piazzola è Silvio dalla voce morbida, pulita e sicura, convincente nel duetto con Nedda. Vanno necessariamente citati gli acrobati: Evelyne Allard, Moira Albertalli, Helena Bittencourt, Annie-Kim Déry, Stéphane Gentilini, Mariève Hémond, David Menes. Con loro i bravi contadini-clown Massimo Sirigu e Sergio Valentino.
Donato Renzetti dirige l'orchestra del teatro sfrondando la partitura da un verismo troppo calcato ed arricchendola con echi che virano già al Novecento; i tempi sono mantenuti con mano sicura; il suono è leggero, pieno di respiro, perfettamente in linea con le intenzioni registiche; non sempre è preciso l'appiombo con il palco, come nell'attesa “Vesti la giubba”. Puntuale l'apporto del coro del teatro, preparato da Salvatore Caputo, e del coro di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi.
Spettatori entusiasti dello spettacolo, moltissimi applausi. Tra il pubblico anche il sindaco Luigi De Magistris, seduto il platea tra i cittadini.
Nel foyer una interessante mostra di documenti dal museo Ruggiero Leoncavallo di Montalto Uffugo (Cosenza) tra cui ci è parso particolarmente interessante il codice penale del padre magistrato con la pagina chiosata relativa ai delitti con armi da taglio.