Opera popolarissima eppure, all'epoca della sua realizzazione, malvista e giudicata decadente, falsa e artificiosa dalla critica paludata (famoso il giudizio di Andrea Della Corte che la definì musica dipinta con la scopa) I Pagliacci di Ruggero Leoncavallo viene annoverata, assieme all'altrettanto famosa, ma più ben vista, Cavalleria rusticana di Mascagni, come esemplare perfetto di quell'opera verista e forse proprio per questo tanto vituperata.
I Pagliacci è verista nell'argomento del suo libretto (dello stesso Leoncavallo) ispirato a un efferato omicidio realmente accaduto nel comune calabrese di Montalto Uffugo, dove nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1865, il giovane Gaetano Scavello, che lavorava come domestico presso casa Leoncavallo, venne ucciso dai due fratelli D'Alessandro perché Gaetano aveva percosso un loro giovanissimo servitore che accompagnava una giovane che l'ucciso aveva corteggiato.
Ecco che la vendetta di un affronto (un servo picchiato) diventa nelle mani del verista Leoncavallo un delitto d'onore e un amore reciso (quello tra Nedda e Silvio) nel giorno della maggiore festa popolana di Montalto, quella dell'Assunzione.
Lo spostamento di data permette al librettista di giustificare contadini e contadine vestiti a festa e l'intero setting de I Pagliacci.Con una squisita sensibilità teatrale, tutt'altro che pedissequa rappresentazione della realtà, I pagliacci colpisce non solo per l'elegante rielaborazione di temi operistici illustri (la gelosia da Carmen, l'invidia e la vendetta dall'Otello, la deformità da Rigoletto), ma per l'originale interscambio tra scena e vita, finzione e realtà, che aprono la strada, anticipandone i risvolti, a tutta la ricerca novecentesca sull'argomento. Non male per un dramma comune e logoro come voleva Ildebrando Pizzetti. D'altronde gli equivoci sul verismo sono difficili da evitare ancora oggi.
Che Leoncavallo non sia un ovvio descrittore di fatti realmente accaduti è dimostrato dall'intelligenza e la sensibilità con cui, in uno squisito gioco metateatrale, costruisce il secondo atto, sul parallelismo tra la scena che Canio e Nedda interpretano nei panni di Pagliaccio e Colombina e le loro vicende personali, giocando sul punto di vista dello spettatore, quello sul palco che assiste alla scenetta di gelosia dei pagliacci, ignaro di quanto stia realmente succedendo, e quello in sala che sa quanto la storia interpretata ricordi a Canio quella sua privata, tanto da indurlo uccidere la moglie e il di lei amante Silvio.
D'altronde il prologo, detto da Tonio, spiega la prospettiva estetica dell'opera che instaura un parallelismo tra vicende rappresentate e condizione umana dimostrando che il verismo è tutt'altra cosa da quello descritto dai suo denigratori (come ricorda il M° Gelmetti, nel programma di sala, Il verismo musicale è il massimo della "suprema" illusione: l'illusione del vero).
Più difficile è dire cosa sia il verismo in campo operistico. Qui possiamo soltanto ricordare che il verismo musicale viene sempre definito in negativo come fa Massimo Mila riferendosi all'eccessiva aderenza della musica all'azione, che la incalza e ne è incalzata, senza che si lasci posto per il respiro della catarsi1.
Comunque sia I pagliacci gode da subito di un enorme successo popolare e tra qualche semplificazione, taglio e glossa (come si legge nell'accurato ed esaustivo programma di sala a cura di Anna Cepollaro), è diventata, almeno per il popolo, l'opera per antonomasia, con la sua aria Vesti la giubba (volgarmente conosciuta col nome di Ridi pagliaccio) che ha legato la sua fortuna a quella del suo interprete par excellence Enrico Caruso influenzando tutta la cultura popolare del novecento, dal cinema (diversi i film dedicati o ispirati all'opera) alla musica (dai Queen a Mina).
L'allestimento di Zeffirelli si discosta dalla tradizione e sceglie di presentare I pagliacci (normalmente affiancata a Cavalleria rusticana di Mascagni) da sola, per restituirle nella sua autonomia la dignità che merita. La precedono alcuni celebri brani sinfonici di Mascagni, un breve florilegio di brani veristi, che forse non convincerà i puristi, funzionali a introdurre l'opera in un preciso clima musicale (riprendendo brani ormai tropo spesso assenti dalle pubbliche esecuzioni) senza offuscarne la fisionomia con l'accostamento a un'altra opera dai toni veristi e dunque forti.
L'esecuzione in solitaria non è la novità di maggior rilievo della messa i scena. Zeffirelli ha infatti scelto di cambiare l'ambientazione storica dal 1865/70, come specificato nel libretto, agli anni sessanta/settanta del secolo scorso. Come spiega egli stesso non per "attualizzare" l'opera ma per eseguirla come l'aveva concepita Leoncavallo che l'aveva ambeintata in un ambiente moderno e quasi contemporaneo.
Quando si apre il sipario l’occhio rimane colpito da una scena imponente (di Zeffirelli) che riempie tutto il campo visivo che rappresenta un crocevia di paese tra il “Bar Centrale”, l'officina e un palazzo di tre piani, con ballatoio, e diversi interni, che, per tutto il primo atto, vive di vita propria tra donne che stirano, panni stesi, operai intenti a ridare l'intonaco, giocatori di carte, prostitute nere che danzano sotto il lampadario di casa, televisori, in bianco e nero e a colori, sempre accesi.
Per strada si muove una folla festosa fatta di militari, prostitute, travestiti, giovani in lambretta (che attraversa l'intero palco), novelli sposi alla ricerca di qualche foto pittoresca, tra i quali si confondono acrobati, saltimbanchi, giocolieri e i pagliacci che giungono a bordo di un'automobile che traina una vera roulotte (ma non manca un vero asino come richiesto da libretto).
Una gioia per l'occhio che può spaziare per ogni angolo della scena e scorgere siparietti e scene, nessuno resta fermo mentre l'opera procede.
Solo durante il duetto tra Nedda e Silvio la scena si spegne e si svuota, mentre nel finale del primo atto, subito prima della celebre aria che lo chiude, la scena è coperta da grandi manifesti/stendardi, sostenuti a mano o calati dall'alto, nei quali sono ritratti clown in mille pose. Così tappezzata la scena si riaffollerà per lo spettacolo dei pagliacci nel secondo atto. Anche qui la precisione di Zeffirelli lo porta a curare i dettagli della clownerie: Nedda combatte con un tavolo che scompare e riappare, inghiottito da una botola della scena, mentre pagliacci e giocolieri intrattengono il pubblico con i loro siparietti durante il corteggiamento di Arlecchino e la scenata di gelosia di Pagliaccio. Forse questa sovrabbondanza di dettagli soffoca un po' il sottotesto della scena quando la gelosia recitata tra Pagliaccio e Colombina diventa improvvisamente quella "vera" tra Canio e Nedda e stavolta il pubblico in sala rischia di non avvedersene proprio come quello sul palcoscenico.
La chiusa dello spettacolo è elegante e coerente con la nuova ambientazione temporale. Dopo aver colpito a morte Silvio, mentre la folla rimane impietrita dal duplice omicidio, Canio stringe a sé il corpo esanime di Nedda e dopo che Tonio (e non Canio come ha voluto la tradizione, avvallata dallo stesso Leoncavallo nelle successive edizioni del libretto) chiude l'Opera con il celebre La commedia è finita, due poliziotti sopraggiungono e prendono Canio per le braccia per arrestarlo, quando la scena si ferma, e tutti rimangono immobili, come in posa per lo scatto di una foto; su questa immobilità l'orchestra suona le ultime note dell'opera e il sipario si chiude.
L'organico degli interpreti, che cambia a seconda delle repliche, ha visto per la serata del 22 nel ruolo di Nedda Mina Yamazaki dalla sicura presenza scenica man dal timbro piuttosto monoespressivo che si sostiene più sulla tecnica che sull'interpretazione e che funziona meglio negli assoli che nei duetti con Gianpiero Ruggeri l'interprete un po' sbiadito di Silvio. Il pubblico li applaude più volte.
Renzo Zulian interpreta Canio come un uomo violento e poco incline alla disperazione romantica con cui la tradizione lo ha dipinto, per cui la sua sua interpretazione di Vesti la giubba è più asciutta, più trattenuta (non cade disperato a terra e non singhiozza quasi), ma non per questo vocalmente meno interessante, e se delude qualche spettatore abituato alla tradizione verista, convince invece per la coerenza interpretativa. Molto convincente anche Silvio Zanon pienamente addentro la parte e non solo per physique du rôle ma soprattutto per la verve interpretativa che lo fa apparire quasi il vero protagonista dell'opera, complice qualche dettaglio registico come l'arma del delitto che fornisce brevi manu a Canio o l'ultima parola a lui ripristinata.
In stato di grazia Cristiano Olivieri nel ruolo di Peppe nella serenata del secondo atto.
La direzione di Gelmetti rende giustizia delle complessità della partitura de I pagliacci la cui orchestra non accompagna né predomina i personaggi (tra i quali non si deve dimenticare il popolo incarnato da un coro preciso ed elegantemente presente del M° Andrea Giorgi, al quale si aggiunge il coro di voci bianche di Roma diretto da Josè Maria Sciutto) dimostrando come non sia affatto un'opera da dirigere in maniera veristicamente dura ma anche con lievità.
Il pubblico apprezza e tributa grandi applausi.
1) Massimo Mila, Breve storia della musica Einaudi, Torino 1993 p. 38
Roma, Teatro dell'Opera, visto il 22 maggio 2009 Febbraio 2009
Visto il
al
Costanzi - Teatro dell'Opera
di Roma
(RM)