Daniele Finzi Pasca è un artista eclettico, capace di attraversare con fantasia i confini tra i generi spettacolari e di mescolare i linguaggi estetici in modo sempre originale. Ginnasta, attore, mimo e regista, l’artista luganese si muove tra teatro e circo, tra cinema e opera. Il suo allestimento di “Pagliacci” attualmente in cartellone al San Carlo, già presentato con grande successo nel 2011, riscuote di nuovo il caloroso consenso del pubblico partenopeo, né ciò meraviglia quando si consideri il notevole impatto visivo della rappresentazione. Finzi Pasca rinuncia completamente al concetto classico di scenografia e, sfruttando in profondità il vasto volume che ha a disposizione, organizza lo spazio per mezzo di pannelli mobili e, soprattutto, della luce. Una luce spesso tagliente e quasi abbagliante, che sembra utilizzata per portare in superficie il nucleo scabro della verità celato dietro la finzione. Una luce duttile, pronta a congiungersi ai colori primari per fissare la ‘tinta’ dell’amore (il rosso intenso che avvolge Nedda e Silvio) o del livore (il verde che fa da sfondo al dolente monologo di Canio), oppure a sgranarsi in una pioggia di stelle puntiformi che cala lentamente dall’alto. Altro ingrediente fondamentale utilizzato da Finzi Pasca è l’acqua, che comincia ad allagare la scena alla fine del primo atto per poi dominare il prosieguo dell’azione fino alla pioggia fitta e minuta che scende sui personaggi negli ultimi istanti fatali.
Il gioco metateatrale insito nella creazione di Leoncavallo risulta moltiplicato e arricchito da innesti esogeni. Nella prima parte, Canio, Tonio e Silvio indossano un anonimo smoking, mentre sono gli abitanti di Montalto, per tutta la durata della performance, a vestire abiti da clown caratterizzati da una disperata vivacità di fogge bizzarre e di colori gridati (a firmare i costumi è Giovanna Buzzi). In più, tra i cantanti e i coristi si aggirano dieci acrobati che prestano la propria fisicità energica e flessuosa a incessanti evoluzioni al suolo e a mezz’aria. A volte queste presenze mobili e mute agiscono in simbiosi e in dialogo con l’azione drammatica: così accade all’inizio della seconda scena del primo atto, dove i movimenti di tre trapeziste sembrano materializzare il «volo d’augelli» cantato da Nedda. In altri momenti i funamboli conquistano aree autonome: prima dell’avvio dell’opera, ad esempio, si esibiscono al suono dell’Intermezzo eseguito al pianoforte da Leoncavallo e inciso su rullo nel 1905; la stessa cosa accade tra le prime due scene del secondo atto sulle note di un’altra registrazione storica (il compositore che interpreta il suo Flirt Waltzer) subito prima della recita di Colombina e Arlecchino. Tuttavia gli apporti acrobatici, indubbiamente suggestivi, appaiono più esornativi che funzionali, privi come sono di reale valore drammaturgico. La seduzione del gioco corporeo non va esente da una certa gratuità, e alla fine viene da chiedersi se essa sia di giovamento o d’intralcio alla ‘lettura’ dell’opera.
Alle fantasmagorie circensi della messinscena corrisponde una qualità musicale più che dignitosa. Nello Santi, vero veterano del podio, guida l’orchestra sancarliana con sicurezza e sensibilità; buona risulta anche la prestazione dei coristi e delle voci bianche, addestrati rispettivamente da Salvatore Caputo e Stefania Rinaldi. Nella Nedda di Alexia Voulgaridou, la freschezza prevale sullo spessore. Ancora acerbo risulta Rafael Davila nel ruolo di Canio, un po’ rigido appare Luca Grassi alle prese con Silvio. Buona la prova di Alberto Mastromarino, che tratteggia con efficacia i risvolti subdoli e grotteschi del personaggio di Tonio, e di Fabrizio Paesano nei panni di Peppe. Completano il cast Luigi Strazzullo e Giacomo Mercaldo (due contadini).