Solitamente i Pagliacci vanno in scena in un dittico abbinati a Cavalleria rusticana o ad altri atti unici novecenteschi; a Torino, invece, il capolavoro di Leoncavallo è stato proposto da solo, in un nuovo allestimento firmato da Gabriele Lavia e siamo d’accordo con il regista che “sia un’opera compiuta che non ha bisogno di un altro titolo accanto”. Alle prese con un’opera manifesto del verismo, Gabriele Lavia adotta un’impostazione tradizionale molto fedele al libretto e alla drammaturgia e ambienta la vicenda nel dopoguerra, in un villaggio sperduto del sud che reca i segni dei bombardamenti bellici. Il regista dichiara ispirarsi al cinema neorealista ma anche a un vissuto personale e al ricordo delle immagini di una Catania sfollata e distrutta vista con gli occhi del bambino.
La scena di Paolo Ventura (curatore anche dei costumi) mostra quello che rimane di un paese del sud con una chiesa diroccata sulla sinistra, un muro screpolato sullo sfondo dove s’intravede una scritta in stampatello a calce bianca “vincere”, edifici dal tetto sventrato e, sulla destra, un palco di legno che, nel contesto di miseria e distruzione, evoca un patibolo. Le luci livide e cineree di Andrea Anfossi accentuano la desolazione dell’ambiente e anche le fioche lucine colorate sospese lungo la scena contribuiscono a dare un senso di precarietà, come del resto il palco improvvisato e il sipario lacero tenuto in piedi da acrobati sui trampoli. Ed è proprio la povertà di mezzi che rende più comprensibile la situazione di questi artisti di strada dai costumi rimediati che recitano su di una scena inesistente, dove, con l’italica arte di arrangiarsi, una vuota cornice funziona da finestra, specchio e, coperta da un pezzo di stoffa, da tavola imbandita. L’allestimento è essenziale e forse proprio per questo funziona per rendere evidente la miseria dei pagliacci (e per estensione del loro pubblico); i tre personaggi principali vengono rappresentati in modo oggettivo, dei poveracci più che degli abbietti, senza caricarne ulteriormente i caratteri. Il regista fa uso di sipari chiusi e fermi immagine: all’inizio un bambino vestito da pagliaccio (alter ego di Tonio a cui è affidato il prologo) percorre in silenzio la scena e dà la battuta d’inizio al direttore; anche l’intermezzo si svolge a sipario chiuso, scelta efficace per fare decantare l’emozione successiva a “Vesti la giubba” e preparare a livello emozionale l’imminente catastrofe. Inoltre il regista blocca talvolta i movimenti delle masse con un fermo immagine che evoca tableaux vivants o ciak cinematografici.
Nella recita a cui abbiamo assistito il ruolo di Canio, causa un’indisposizione del previsto Fabio Sartori, è stato interpretato da Francesco Anile; il tenore calabrese ha voce solida, caratteristica fondamentale per il ruolo, e anche a livello scenico funziona nella rappresentazione di gelosia e disperazione senza andare inutilmente sopra le righe; ma se in “ Vesti la giubba” si è avvertita una certa ricerca espressiva (e non a caso è stato premiato dagli applausi del pubblico), la scena finale avrebbe voluto maggiori colori e varietà ritmica. Nel ruolo di Nedda abbiamo ritrovato a poche settimane dal parto Erika Grimaldi, giovane cantante piemontese in ascesa spesso presente sul palcoscenico torinese, che si è confermata anche un’ottima attrice; la voce è piena e di timbro gradevole, anche se non sempre nitida, e ne risente soprattutto l’iniziale "Qual fiamma avea nel guardo!’, ma dopo la ballata l’esecuzione è in crescendo e trionfa nel duetto amoroso con Silvio. Quello che abbiamo apprezzato di più è stato Roberto Frontali, un Tonio di classe, oltre che per la presenza scenica puntuale, per l’emissione curata, l’attenzione al fraseggio e un canto misurato, ma sempre incisivo. Ci è piaciuto anche il delicato Arlecchino di Juan José de Leòn (anche interprete di Peppe) e soprattutto il Silvio di Andrzej Filończyk dalla bella voce leggera da seguire. Concludono adeguatamente il cast i due contadini di Vladimir Jurlin e Sabino Gaita.
Nicola Luisotti al suo debutto al Regio di Torino imprime una direzione tesa e trascinante che trova il suo apice nell’intermezzo; dell’orchestra si apprezza densità e colore, anche se certi attacchi avrebbero voluto maggiore precisione. Ottima per coesione vocale la prova del coro diretto da Claudio Fenoglio.