Sangue scorre a fiumi sul palcoscenico: ecco “Pagliacci” di Leoncavallo

Sangue scorre a fiumi sul palcoscenico: ecco “Pagliacci” di Leoncavallo

Dopo aver ritrovato nuova linfa e insospettata energia con Cavalleria rusticana di Mascagni, l'opera italiana pare consacrarsi tutta al Verismo, con un fiorire di titoli più o meno fortunati. Solo uno però ha incontrato imperitura fortuna: Pagliacci di Leoncavallo, che ha formato per così tanto tempo un'accoppiata vincente con Cavalleria, da suggerire la definizione di gemelle siamesi dell'opera.

Che la trama di Pagliacci trovi origine in un fatto di cronaca reale, come sostenuto dal suo autore, è cosa smentita da tempo. La fonte sarebbe semmai La femme du tabarin di Mendés, piéce vista sicuramente ai tempi del soggiorno parigino. Nondimeno, la trasposizione in terra calabrese accentua il clima folklorico ed innalza la temperatura della vicenda, mentre lo sdoppiamento fra vita reale e finzione teatrale, che alla fine si ricompone, è trovata invero geniale.

Sul podio, una scoperta di Muti

Pagliacci è il secondo titolo della Trilogia d'autunno che ha siglato il Ravenna Festival 2017 insieme a Cavalleria e Tosca. Tre opere portate in scena per nove serate consecutive, un vero tour de force affidato per la parte musicale ad una scoperta di Riccardo Muti, il trentenne direttore bielorusso Vladimir Ovodok. Dal podio dell'Orchestra Cherubini, Ovodok affronta la ricchezza della partitura con atteggiamento disteso, senza esaltarne le scabrosità né le frequenti enfasi, e con spirito lucidamente espositivo. Non che manchino l'energia e le vibrazioni, tutt'altro; ma il clima della sua Calabria appare più languido che passionale e torrido, tra pienezza di colori strumentali e belle sfumature timbriche, con un cast condotto sempre per mano.

Cast capitanato dal tenore Diego Cavazzin, che nella tormentata figura di Canio trova buon terreno per la convinta aderenza psicologica, sostenendola poi con una voce limpida e squillante, ora dal colore carezzevole, ora incisiva e minacciosa. Al suo fianco la tenera Nedda del giovanissimo soprano madrileno Estìbaliz Martyn, capace di interiorizzare e far proprie le trepidanti emozioni di Nedda, con una organizzazione vocale ben costruita e di considerevole finezza. Solidissimo e persuasivo il Tonio di Kiril Manolov, sin dal travolgente Prologo; teneramente appassionato il Silvio del baritono ucraino Igor Onishchenko, ineccepibile il Beppe di Giovanni Sala. Il Coro del Teatro Comunale di Piacenza ha fatto la sua bella figura, come si suol dire, al pari delle voci bianche del Ludus Vocalis.

Musica e dramma di pari passo

Le regie di Cristina Mazzavillani Muti hanno il dono di procedere con lineare semplicità, restando sempre aderenti al testo rappresentato, e sempre drammaturgicamente convincenti. Valutazione valida anche per questo spettacolo di ottima tenuta scenica. E si tenga poi conto che si è sobbarcata l'onere aggiuntivo di far aprire la serata da un geniale Pagliacci remix, sorta di ouverture moderna dell'opera, espressa con mezzi attualissimi – pop, rock, rap, danza, musical – affidata all'inventiva ed al talento di un gruppo di giovanissimi artisti locali. Estremamente funzionali e suggestive le scene da lei realizzate insieme a Vincent Longuemare, molto appropriati i costumi ideati da Alessandro Lai.