Dall’alto di un palo, issato sulla terra, cosa si può vedere? Si guarda giù e si può vedere qualcosa che sembra mare, forse. Potrebbe sembrare mare. È fango. È schifo. È pantano. Ci si deve liberare. Si deve cercare di tenere alta la testa, dopo aver trascorso troppo tempo a tenerla bassa.
Lassù piove. O forse pioverà. O forse si aspetta che piova. “Pali” è un testo (vincitore del Premio Ubu nel 2009) enigmatico, che si muove tra metafore e allegorie con molta facilità. L’autore, Spiro Scimone, è in scena insieme a Francesco Sframeli, regista, Salvatore Arena e Gianluca Cesale.
In un contesto pulito e limpido, simmetrico, molto pop, i quattro personaggi cercano la propria dimensione per riuscire ad andare avanti. Tutti possono salire sui pali, basta trovarne uno libero. Chiunque può affrancarsi dalla sua condizione di sudditanza, basta che abbia un’opportunità. In fondo siamo in cima ad una sorta di Golgota colorato.
Sulla scia del grande teatro dell’assurdo del Novecento (inevitabile sentire il richiamo alle strutture e alle dinamiche di dialogo di Beckett), “Pali” cerca di lanciare un messaggio di ineluttabilità. La condizione umana, disperata e vacua, non può, in fondo, essere colmata. Non può raggiungere un equilibrio se non nell’annullamento.
Lo spettacolo funziona, ma non ha la potenza che vorrebbe. Resta incastrato in un virtuosismo linguistico e logico che non permette di vedere davvero ciò che sta dietro. Il presunto vuoto. O ciò che sta in basso, la presunta merda (mi permetto di usare il termine perché usato nel testo stesso).
I personaggi non riescono a diventare coro così come non riescono a diventare simboli, icone (cosa che invece i personaggi di Beckett non possono evitare). E l’ironia, voluta, non sfonda con forza, ma affiora facendo sorridere per il momento, non per il messaggio. Quello che si dice è poetico ed esistenziale: c’è la cattiveria, c’è la rassegnazione, ci sono il sadismo e l’illusione di essere i più furbi. Il messaggio finale è tuttavia slegato e senza una vera unitarietà di veduta e di intento.
Abbiamo visto il pieno, un pieno piacevole della sua drammatica ridicolezza. Ma potevamo vedere il vuoto e questo sì, ci avrebbe spaventati.