Spettacolo vincitore del Premio Equilibrio 2011, “Parkin’son”, creazione del coreografo e danzatore Giulio D’Anna, è approdato lo scorso 28 ottobre all’Arena del Sole, nell’ambito dell’undicesima edizione del Gender Bender Festival.
In scena un padre e un figlio, un dialogo tra corpi, una ricerca gestuale di forte impatto fisico ed emotivo, emozionata ed emozionante, un modo per ritrovare se stessi, per ritrovarsi negli occhi, sul viso, nelle linee, nelle forme dell’altro.
Padre e figlio esplorano la loro relazione, il loro rapporto, lo sviscerano, riscoprendosi attraverso il contattato fisico, attraverso un dialogo fatto di azioni, gesti e poche parole: è un riappropriarsi del proprio corpo e del corpo dell’altro, con una nuova consapevolezza.
Eventi personali, momenti felici e drammatici che hanno caratterizzato la loro vita, la loro storia si intrecciano al movimento, al gesto, creando una partitura fisica che si muove tra una dimensione reale e una emotiva, al cui centro c’è la malattia del padre che ha cambiato i rapporti, gli equilibri e che rappresenta un limite da superare.
In "Parkin'son", Giulio D'Anna, si racconta attraverso il rapporto col padre Stefano –a cui è stato diagnosticato il morbo di Parkinson; il progetto nasce dall’esigenza e dalla necessità di usare “il limite” come fonte di possibilità e dal desiderio di raccontare due storie - del padre e del figlio - intimamente e profondamente legate tra loro.
« Parkin’son è al tempo stesso un diario e un manifesto, un’”esorcizzazione” del futuro dove le percezioni di passato, presente e futuro si mescolano attraverso nozioni personali e scientifiche…»
Due generazioni, due mondi, due vite, due personalità si confrontano e si scontrano: Stefano, terapista di 64 anni senza alcuna esperienza e formazione di danza e Giulio, danzatore e coreografo di 33 anni.
Lo spettacolo si apre con una voce off che ci elenca le date importanti che scandiscono la vita del protagonista della performance, Stefano D’Anna: gli innumerevoli cambi d’auto – che segnano le varie età della sua vita, le date di nascita dei due figli, le punizioni al figlio Giulio dopo aver scoperto il vizio del fumo; nel corso dello spettacolo anche il figlio Giulio ci racconta le date più importanti della sua vita: la scoperta della danza, il trasferimento a Bologna per studiare Medicina, la decisione di abbandonare la Facoltà di Medicina per intraprendere lo studio della danza, gli eventi che hanno segnato il percorso per la conoscenza di se stesso, la scoperta della sua sessualità…
Lo spettacolo è un album di momenti di vita “normale”, dove si alternano momenti dolorosi a momenti felici, ricordi d’infanzia a sogni futuri, il presente col passato, attraverso commenti personali e nozioni mediche. I corpi prendono forme, posture che sono l’incipit di movimenti di danza: il corpo del padre ha contegno e lentezza, il corpo del figlio ha dinamicità e forza.
I due compiono movimenti speculari, si cercano, si rincorrono, litigano, si colpiscono, si accarezzano, si abbracciano, si prendono per mano, si spingono via: è un tornare a conoscersi, un prendere nuovamente confidenza l’uno con il corpo dell’altro.
Grovigli di corpi, intrecci in cui non è chiaro dove finisce il padre e dove inizia il figlio: il figlio si aggroviglia al corpo del padre, lo esplora, lo scala, lo alza, lo deposita, diventa appoggio, prolungamento e viceversa.
D’Anna costruisce la coreografia attorno padre, seguendo le potenzialità e le possibilità dei rispettivi corpi. I due corpi insieme creano emozioni contrastanti, rimandi a tempi lontani, superano pudori e imbarazzi: il protagonista è il corpo nella sua totalità, nella sua interezza, nella sua cruda e semplice verità.
I corpi diventano naturali strumenti per esprime amore, affetto, complicità, comprensione, tensione, ovvero vita.
Entriamo nel loro universo, nella loro intimità, ci rendono partecipi, senza timore, della loro vita privata, anzi cercano il nostro sguardo per una condivisione umana profonda e ampia, perché come afferma Giulio D’Anna l'arte è uno strumento che «ci aiuta nel trovarci, nel perderci, nel sentire, nel comprendere. Nell'essere pienamente esseri umani».
“Parkin’son” è uno spettacolo delicato, toccante, intimo, che alterna sapientemente ironia e struggente dolcezza, in cui si fondono diversi linguaggi teatrali con “corpi drammatici”, alla ricerca di una virtuosità non convenzionale. Commuovente questa indagine personale e intima del rapporto padre/figlio, di questo complesso legame fatto di condivisioni di eventi drammatici, ma anche di momenti felici, di scontri, di complicità: di profondo amore.
L’intenzione di D’Anna è di lasciarci un messaggio di speranza nei confronti di un futuro incerto, precario, proprio a causa di una malattia che non dà molte vie d’uscita: la speranza è il padre, Stefano, che affronterà ogni domani proprio con quel corpo che sarà vittima della malattia. La sensazione che rimane, una volta concluso lo spettacolo, è di aver condiviso una dimensione emotiva intima e famigliare, privata, che in realtà però appartiene a tutti, ci riguarda da vicino, ci tocca tutti, in modi e tempi diversi.
“Parkin’son” ci aiuta a trovarci, perderci, a sentire e comprendere: a essere pienamente esseri umani.