Lirica
PARSIFAL

Il vero valore della conoscenza e degli incontri

Il vero valore della conoscenza e degli incontri

La scrittura musicale e poetica di Parsifal è immersa in un clima mistico evidentemente cristiano; Federico Tiezzi intende la partitura (non a torto e senza forzature) come il doloroso cammino della umanità verso la perfezione, intesa come adesione completa alla vita reale, come la liberazione dalle tenebre dell'ignoranza. Infatti Parsifal è l'uomo che pensa, che cerca una verità dentro di sé e nella realtà, è colui che interroga e che si interroga, soprattutto. Come l'immagine sul velatino, un uomo seduto con la testa fra le mani: siamo all'antitesi dell'uomo rinascimentale leonardesco.

In Parsifal la trama è pressochè inesistente e nella messa in scena di Tiezzi la drammaturgia è azione interiore, viaggio verso la conoscenza, cammino verso la luce del sapere e della cultura. I pochi, rarefatti gesti che la regia suggerisce si ammantano così di inevitabile ieraticità, all'interno di un contesto scenotecnico che traduce perfettamente l'idea registica, il passaggio dalle tenebre alla luce, il ruolo della conoscenza.
Non ci sono elementi naturalistici né attrezzi nella scena illuminata in modo suggestivo e significativo da Gigi Saccomandi (luci essenziale nella riuscita dell'allestimento).
Allusivi i bei costumi di Giovanna Buzzi: abiti bianchi nel primo atto (giacca e pantaloni per gli scudieri, camicione per i cavalieri), Gurnemanz nei toni e nei tipi da monaco tibetano, Kundry paludata in celeste polvere, Klingsor e Kundry nel secondo atto hanno testa di coccodrillo e lunghi mantelli stregoneschi (agiscono su uno sfondo di pianeti sideralmente lontani dalla Terra), le fanciulle-fiore sono in sari arancio-viola come il coro femminile (bellissimo, pare la riva del Gange nelle stoffe palpitanti e i gesti aggraziati), nel terzo tutti in nero con l'interno arancio, svelato nel finale.
La scena ideata da Giulio Paolini è profonda come l'uomo che scruta dentro sé stesso, le linee impongono all'occhio di andare lontano, di approfondire. Le immagini sono rarefatte per concentrarsi sull'idea portante, per non farsi distrarre da una confusione deviante che non ci permette di cogliere il vero valore delle cose e degli incontri.
Il percorso di Parsifal è metaforicamente il viaggio dell'uomo, un cammino interiore verso la conoscenza, dal buio alla luce, dall'ignoranza alla verità, dalla cecità del non sapere alla luce di chi sa, di chi conosce. Un cammino fatto si esperienze, di studio, di incontri (anche casuali).
Paolini rimanda alla classicità: l'Hermes di Prassitele (duplice), le colonne doriche sospese sui piedistalli non più stilobati, Kundry distesa (come Afrodite in “Dione e Afrodite” di Fidia), i cavalieri ad emiciclo come in un odeon, il cigno diventa una natura morta che deborda dalla cornice dorata e pare una nuvola, il Graal è una clessidra dentro un groviglio di cornici. Eppoi i  libri, una costante dei tre atti: Parsifal è colui che non sa, ignora tutto di sé, si siede con la testa fra le mani raddoppiando la figura sul velatino. I libri sono cibo dell'anima, cibo quotidiano. Libri come veicolo di parole, parola come elemento salvifico, libro come corpus christi. I vecchi saggi recano libri in mano, hanno libri sui tavoli davanti a loro, appoggiano la mano sui libri con fare solenne: il pane dell'ultima Cena, il pane per la cena quotidiana. L'unica  cosa che ci salverà è la conoscenza. Da qui il respiro del finale, quando i sipari che restringo la scena si sollevano: la forza della conoscenza.

Convincente il cast. Ottimo Christopher Ventris nel ruolo di Parsifal, personaggio spesso affrontato sulla scena e ben approfondito dal punto di vista interpretativo, di cui rende intensa e credibile l’evoluzione da puro folle a redentore consapevole, mantenendo costante l'idea della “ricerca” dentro a sé e intorno a sé; la voce ben controllata risulta sufficientemente potente per reggere le pagine più eroiche ed il bel timbro conserva la freschezza che si addice a una creatura ingenua e pura; intenso e vibrante nel duetto con Kundry, struggente e sfumato nel terzo atto, dove il canto si screzia di dolore nel racconto del lungo errare, d’ingenua meraviglia davanti alla natura che finalmente riluce.
Nella Kundry di Christine Goerke lo scatto ferino prevale sulla sensualità, ma nel terzo atto, abbandonata ogni traccia barbarica, si trasfigura in una figura dolce e dolente intrisa di humanitas cristiana; la voce è importante, dal registro centrale particolarmente pieno e ricco di sfumature, gli estremi acuti suonano un po’ forzati e si avverte qualche discontinuità negli impietosi passaggi di registro, ma la resa musicale ed espressiva non ne viene compromessa.
Jochen Schmeckenberger rende evidente l’angoscia di Amfortas, torturato nella carne e nell’animo, ma la voce, seppur ragguardevole in termini di estensione, non ha sufficiente morbidezza di emissione e sottigliezza di fraseggio per tradurre tutta la malinconia dolorosa del personaggio.
Si distingue Kwangchul Youn, non a caso considerato Gurnemanz di riferimento nel panorama lirico internazionale: voce magnifica, omogenea, ampia e sonora, di composta nobiltà e dizione eloquente, che emana sacerdotale autorevolezza: la capacità di scavo sulla frase e sulla parola rendono avvincenti i lunghi monologhi, riflessioni intrise di sconforto e dolore, che lo emancipano dal ruolo di puro narratore.
E’ sempre un’emozione ascoltare la voce profonda e di grande peso drammatico di Kurt Rydl, voce fuori scena che evoca passata potenza e infinito dolore di Titurel. Malvagio quanto basta il Klingsor di Mark Doss. Le fanciulle fiore hanno movimenti aggraziati e sono vocalmente corrette: Talia Or, Erika Grimaldi, Anastasia Boldryreva, Arianna Ballotta, Rebecca Jo Loeb, Stefanie Irànyi. Mathias Schulz e John Paul Huckle sono primo e secondo cavaliere. Concludono il cast  la voce dall’alto di Roberta Garelli e gli scudieri Vicente Ombuena e Jud Perry.

Bertrand de Billy, direttore francese molto apprezzato sulle principali scene austriache e tedesche, ma in Italia poco conosciuto e al suo debutto a Torino, offre una lettura non ovvia, ma convincente, del capolavoro wagneriano. La sua direzione è analitica, luminosa e “logica” (quasi cartesiana, come la formazione francese lascia supporre) che svela in filigrana le nervature della complessa struttura musicale senza accentuarne l’aspetto monumentale, rifuggendo da quell’edonismo sonoro che spesso accompagna l’esecuzione di Parsifal e che, quando esasperato, rischia di scadere in vuota enfasi. Un approccio introspettivo che, con sonorità rarefatte e leggere, quasi cameristiche (come nel preludio del terzo atto), rende più autentico il percorso di sofferenza e redenzione che la regia e la messa in scena evidenziano. Anche la Verwandlungsmusik, giocata su trasparenze timbriche e tocchi leggeri, si fa espressione di una sacralità tutta interiorizzata. Ottima la prova dell’orchestra del teatro Regio, che conferma una forte vocazione sinfonica; di alto livello anche quella del coro (diretto da Claudio Fenoglio, come anche il coro di voci bianche) che si è distinto per musicalità e precisione, oltre che per pregnanza scenica.

Teatro gremito, miracoli sotto la Mole: era l'ottava recita di Parsifal. Pubblico attento, fino alla fine. Moltissimi, entusiastici applausi. La rappresentazione è stata preceduta dall'esecuzione dell'inno nazionale e dalla lettura dell'articolo 9 della Costituzione della Repubblica italiana: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Visto il
al Regio di Torino (TO)