Roma, Auditorium Parco della Musica, “Parsifal” di Richard Wagner
ELOGIO DELLA LENTEZZA
Nel luglio del 1845, conclusa la partitura di Tannhäuser, Wagner trascorre qualche settimana di riposo a Marienbad, leggendo il Parzival di Wolfram von Eschenbach (tra i personaggi di Tannhäuser) e rimanendone fortemente attratto: i temi del romanzo non lo abbandonano più, anzi si dedica a una ricerca continua sull'argomento. L'incontro folgorante con la filosofia di Schopenhauer, avvenuto qualche anno dopo, indirizza la ricerca secondo una nuova consapevolezza sui valori spirituali intrinseci al Parsifal.
L'Accademia Nazionale di Santa Cecilia ne ha proposto un'edizione in forma di concerto che ha suggestionato più che altre in forma scenica, anche recenti (Boulez si chiede se sia opera o oratorio). Wagner si trova davanti un materiale copioso e contraddittorio relativo alle vicende del Graal; egli percepisce il concetto della rigenerazione dell'umanità guastata dal materialismo economico e dalle ambizioni mondane e la necessità di una liberazione dal desiderio e dal dolore, ispirato dalla filosofia di Schopenhauer (“passo la vita tra noia e dolore”) e della sua idea centrale dell'inquietudine incessante causata da un anelito inappagabile. Da questo mutua l'idea che l'esperienza dell'amore sia pura dedizione e compassionevole immedesimazione di ogni creatura in ogni creatura. E l'altezza della musica sta nel fatto che si fa interprete di ciò con immediatezza. Senza necessità di scene, costumi, azione.
Dall'attacco, dal primo gesto del direttore si comprende qual è il carattere dominante: la lentezza. Questa musica non ha azione, è contemplazione pura. Daniele Gatti interpreta la partitura con una lentezza ieratica, vibrante, che si ripercuote nell'anima. Le pause saturano l'ascoltatore di attesa estenuante, evocando la situazione interiore dell'agognare il bene perduto (la perfezione profanata) e, al tempo stesso, dipingendo a chiare tinte il paesaggio del territorio del Graal, luogo in cui una nuova umanità può sperare nella rigenerazione totale. I lunghi silenzi vibrano come la musica, carichi di tensione emotiva. Eliminati gli orpelli e l'attrezzeria, i simboli rimangono tali, evocati dai temi musicali che sfilano uno dopo l'altro, anzi acquistano una forza maggiore. Dopo la sacrale lentezza, quasi immobilità, dell'etereo preludio al primo atto (durata oltre due ore, un record), la musica rimane sospesa, galleggia nella sala, si fa lirismo vibrante; poi prende il suo corso, capace di farsi un sussurro o di esplodere con inattesa forza, sempre dominata dalla mano del Maestro (potenza e controllo). Inquietudine incessante. Anelito inappagabile e inappagato.
La lentezza di Gatti permette al suono di fluire come liquido, di espandersi, di lievitare; un suono esaltato in ogni singola pagina e nota, fino a farne veicolo di elevazione, di redenzione. Le emissioni sono prolungate fino allo spasimo, sempre dolcissime, curate, anche negli spigoli della partitura che in questa edizione diventano curve nell'esecuzione morbidissima. Anche dove i tempi sono leggermente (necessariamente) più serrati, come nel secondo atto, Gatti imprime una cura da specialista, fondendo le voci dei solisti e il coro con la musica, fino alla perfezione del terzo atto, con un andamento quasi sinfonico: indimenticabile l'ingresso nella sala del Graal, così solenne e grandioso che sembra far esplodere l'ariosa sala Santa Cecilia. Le correnti profonde ed i riverberi della partitura sono tutti sottolineati, studiati, analizzati con profonda consapevolezza. Le sfumature dei sentimenti sono lì, senza più misteri. La psiche viene indagata con un coltello che la seziona, ma con inaspettata dolcezza. Una concertazione scrupolosa dalle solenni arcate ai fiati, complice un'orchestra che ha dato il meglio di sé, rivelando la trasparenza della trama orchestrale come al microscopio. Con la suggestione del dolby dovuta al posizionare fuori sala alcune percussioni e le campane. Il suono orchestrale pur denso e articolato non ha costituito una barriera per le voci come può accadere nel Parsifal.
Ad una esecuzione musicale pressochè perfetta e profondamente emozionante, fino alla commozione, si è accompagnata una buona compagnia di canto con piccole riserve. Simon O'Neill ha bella voce, solida e sicura, buon fraseggio ed emissione impeccabile, squillo potente; a guardarlo sembra molto coinvolto emotivamente nel ruolo eponimo, vocalmente trasmette talvolta meno colori e gamma di sentimenti. Georg Zeppenfeld è un perfetto Gurnemanz, un ruolo che evidentemente sente intimamente e di cui fornisce una interpretazione molto umana e lirica, un canto sfumato, leggerissimo. Detlef Roth è un distaccato e ieratico Amfortas, ottimo cantante. Lucio Gallo è un Klingsor poco tonante ma inappuntabile sul piano della linea di canto. Evelyn Herlitzius è una Kundry un poco forzata negli acuti.
Le bisbiglianti fanciulle fiore sono: Julia Borchert, Carola Gruber (entrambe anche scudieri), Martina Rüping, Anna Korondi, Jutta Maria Böhnert, Atala Schöck (anche una voce contraltile dall'alto). Con loro Jaco Huijpen (Titurel), i cavalieri Anselmo Fabiani e Massimo Simeoli e gli scudieri Carlo Putelli e Massimiliano Tonsini, artisti del coro di Santa Cecilia.
Ottima la prova del coro di Santa Cecilia e del Coro di voci bianche, dislocati in più posizioni nella sala e anch'essi precisi come l'orchestra.
Teatro gremito all'inizio, poi ad ogni intervallo un calo sensibile. Alla fine i rimasti hanno applaudito a lungo e con calore, giustamente, soprattutto il Maestro Gatti, che fra pochi mesi inaugurerà il festival wagneriano a Bayreuth proprio con Parsifal e che, alla fine dei primi due atti, ha quasi evitato gli applausi. Proprio come a Bayreuth.
Visto a Roma, sala Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica, il 19 gennaio 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Auditorium Parco della Musica - Sala Santa Cecilia
di Roma
(RM)