Non tanti, troppi teatri (d'azione, di narrazione, classico) ma uno solo, quello buono, possibilmente.
Parsons Dance ha il merito di portare a tutti, soprattutto ai non addetti ai lavori, questo messaggio, troppo spesso dimenticato, sull'unitarietà dei linguaggi espressivi nel campo delle arti drammatiche, una suggestione sulla potenza incontrastata del gesto e del movimento.
Da profana della danza, mi piace dire che i ballerini di Parsons non recitano, non danzano, ma agiscono. Agiscono nel senso alto e nobile del lavoro teatrale, ovvero creano, per il tramite dei gesti, una relazione con il pubblico a più livelli: creano un patto narrativo, scelgono un significante coerente col significato, scambiano energia ed emozioni. Le coreografie di Parsons ci ricordano, ci insegnano se non l'abbiamo mai saputo, quanti messaggi possano essere racchiusi in un movimento: la stasi, il dinamismo, la lentezza, la velocità, la grazia, la forza. E ancora, nei movimenti tra loro: la simbiosi, la distonia, la sincronia, il contrasto.
Parsons sceglie di raccontare l'intera gamma di queste possibilità espressive in uno spettacolo dal titolo emblematicamente lapalissiano (Parsons Dance): otto coreografie e otto danzatori variamente combinati, che offrono il meglio del ballo contemporaneo, "assaggiato" dal pubblico sul piccolo schermo attraverso il talent show Amici, da cui proviene peraltro la prima ballerina della compagnia, l'italiana Elena D'Amario.
La scena è volutamente nuda, salvo sapienti architetture di luce e un uso accorto della quarta parete quale mutevole diaframma colorato, frutto del lavoro del light designer Howell Binkley. Si parte con passi a due e coreografie di gruppo, ritmi percussivi e armoniche di strumenti a corda, nei quali Parsons pare sperimentare soprattutto le possibilità di apertura e chiusura del corpo e del suono, si avanza con una coreografia in luce scura su linee centripete e scambi al rallentatore, si esplorano con uno scatenato ballo "metropolitano" le dinamiche di solidarietà e sopraffazione del gruppo, gli sviluppi della coppia, l'affermazione del singolo.
Si arriva, infine, all'attesissimo pezzo forte della serata: l'assolo Caught, in cui i giochi di luce stroboscopica rendono visibile il ballerino solo quando salta, creando la fascinosissima suggestione di un volo. Le immagini restano impresse nella retina, l'effetto è quello di quando si resta incantati da una magia, pur conoscendone il trucco.
Bella, inoltre, la coreografia per sole "mani in luce", vitali, generosi e interessanti i quadri finali. Qui il pubblico inizia a sciogliersi e ad applaudire con un calore che gli artisti meritano per intero: la danza riporta il suo dono primigenio, il rapimento dionisiaco, la gioia. In questi corpi tonici e sudati ritroviamo la resa autentica del movimento, data dalla ricerca profonda della sua essenza, laddove, appunto, si riduce a pura energia, autentica vita.