Pasqua appartiene al teatro mistico di Strindberg, quando, superato il naturalismo delle prime opere, scrive testi pregni di simbolismo cristiano. Sviluppato in tre atti (dedicati ai tre giorni finali della settimana santa) racconta una storia semplice nella quale i personaggi incarnano alcuni degli aspetti fondamentali del del cristianesimo. Al lettore basti sapere questo, per approfondimenti rimandiamo alla bella introduzione di Franco Perelli nella traduzione italiana di Nico Garrone pubblicata da Gremese (potete leggerne alcune parti anche online, cliccando qui).
La messa in scena di Monica Conti che oltre la regia firma anche la drammaturgia, parte da una osservazione condivisibile, riportata, in intervista, nel programma di sala, Pasqua è un testo molto affascinante alla lettura ma pieno di tante cose, di ritorni e anche di stilemi legati a quel periodo storico e per farlo arrivare al pubblico contemporaneo va interpretato. Ma invece di trovare nel testo di Strindberg quell'attualità che poteva far da guida agli attori che lo interpretano Monica sceglie la via più facile, e discutibile, della lettura forzosa che stravolge senso e contesto dell'opera originale tagliandone consistentemente e in maniera diffusa (due frasi lì, un periodo qua) proponendo una sua lettura personale che invece di illuminare il testo con una prospettiva esegetica lo soffoca costringendolo in una forma che non è la sua. Una forma caratterizzata dall'eccesso e dal grottesco. Eccesso nel trucco con cui fa andare in scena i suoi attori, con tanto di biacca e enormi occhiaie dipinte, maschere più vicine all'espressionismo del cinema muto tedesco che a quel teatro mistico cui Pasqua viene di solito riferito; eccesso nella recitazione Alessandro Lussiana costretto a interpretare Beniamino (uno degli studenti vittima delle dilapidazioni economiche del signor Heyst, che, incarcerato, non vediamo mai) con la voce da bambino); eccesso nella regia tutta atta a gridare ed esagerare quel che nel testo viene indicato con garbo, grazia e quasi sottovoce. Se attori di maggiore esperienza come Michela Martini o Nicola Stravalaci sanno nonostante tutto restituire con spessore il personaggio interpretato (rispettivamente la signora Heyst che apparentemente finge di credere il marito innocente ma in realtà ben consapevole della menzogna di cui si convince e il signor Lindkvist, il temuto creditore della famiglia Heyst) gli altri sono tutti vittime di una regia esagerata che li nascondere negli armadi e sotto i tavoli (di proporzioni variabili anche maggiori rispetto a quelle normali, in una deformazione affine all'espressionismo tedesco) per mostrare di "avere paura" del signor Lindkvist laddove Strindberg descrive con partecipazione misurata lo stato d'animo e la psicologa dei personaggi: Elis, il figlio maggiore, a metà tra la vergogna per non essere stato capace di non lasciar ricadere su di sé le colpe del padre e l'orgoglio che lo fa pavido, Cristina, la sua fidanzata molto più forte e coraggiosa di lui, ed Eleonora la giovane sorella impazzita per le colpe paterne che la ragazza sente sue al punto da avvertire le pene di tutti (personaggio per il quale Strindberg si rifece a sua sorella, morta in manicomio un anno prima della scrittura di Pasqua).
L'eleganza della scrittura di Strindberg che dai primi due atti "naturalistici" passa a un terzo atto grottesco è sostituita da una lettura scenica che nulla dice dei profondi risvolti del testo ma ne fa emergere quel poco che la recitazione esagerata, il trucco grottesco, permettono.
Un grottesco tutto di facciata, mostrato, urlato, detto, non sentito.
Il personaggio che esce più danneggiato e mutilato dalla drammaturgia di Monica Conti è quello di Eleonora ridotto a macchietta da cliché televisivo: Eleonora sembra la bambina de La famiglia Addams (stesse treccine, stessa biacca in volto) e il suo "essere pazza" si limita a qualche strana faccia e a tanti strilli (per tacer dei salti sul tavolo, e del nascondersi negli armadi...), ignorando quel che Strindberg aveva pensato per quel personaggio sia da un punto di vista drammaturgico: la pazzia come capacità telepatica di sentire le persone e anche gli oggetti tecnologici (di allora) come il telefono sia da un punto di vista simbolico (la Grazia cristiana che si contrappone alla severità del concetto di giustizia del vecchio testamento). Qui troviamo il limite più grave di questa lettura. Perché sostituire alla pazzia elegante di una telepate dell'umanità quella affettata e banale della "ragazzina matta"? In cosa la semplificazione di Conti è migliore, più fruibile, più efficace di quella originale?
Nulla viene approfondito nello spettacolo, né dal punto di vista dell'epoca di Strindberg né da quello dell'epoca nostra: i complessi rapporti tra Fede e Grazia, tra Colpa e Castigo sono sostituiti da un immaginario collettivo triste, mai ironico (o autoironico) che si prende anzi sempre maledettamente sul serio, che non diverte, né meraviglia, ma lascia perplesso il pubblico che non conosce l'originale e indigna oltremodo chi Strindberg ha anche solamente una conoscenza scolastica.
Invece di restituire il senso di un testo, il contesto di un epoca con dei paragoni arditi quanto si vuole, più vicini al pubblico di oggi, ma che dicano qualcosa di quel testo, Monica Conti preferisce presentare un'idea drammaturgica (la regressione infantile, il signor Lindkvist come un Orco) affossando il testo vestito di orpelli inutili e fini a se stessi.
E alla fine più che per Strindberg che, pure, si starà rivoltando nella tomba, dispiace di questo scempio più per gli attori che meritavano una messa in scena che potesse dirsi tale.
Irrita, invece, la presunzione della sua metteuse en scène che non ha nemmeno l'onestà intellettuale di prendersi la responsabilità di quanto compie e pretende che lo spettacolo Pasqua cui propone al pubblico la sua versione sia ancora di Stindberg e non già, come sarebbe stato più giusto scrivere, sua, liberamente tratta da.
Visto il
10-04-2010
al
India
di Roma
(RM)