Firenze, teatro Goldoni, “Patto di sangue” di Matteo D’Amico
DITTICO NOIR
Assistere a una prima esecuzione dà sempre una certa emozione e ci ricorda, nonostante i tagli e la crisi di un genere, il grande potere di testimonianza e fascinazione della musica “colta” e del teatro musicale. Al Goldoni è andato in scena infatti “Patto di Sangue”, nuova creazione di Matteo D’Amico su libretto di Sandro Cappelletto, appositamente commissionata dal Maggio Fiorentino, che da qualche anno ha il merito di proporre all’interno del Festival le novità del repertorio lirico contemporaneo. Una commedia “nera” e visionaria, tratta dal “Polittico dell’avarizia, la lussuria e la morte” di Ramon del Valle –Inclàn, affollata da poveracci e derelitti, nel corpo e nell’animo, per suggerire il mondo deformato degli “esperpentos” , genere teatrale grottesco proprio del drammaturgo spagnolo che richiama anche l’umanità miseranda e disperata di Goya. Del retablo originale, composto da cinque parti, Matteo D’Amico ne sceglie due, diversamente caratterizzate nonostante l’atmosfera comune: “La Rosa di Carta” è una farsa con elementi caricaturali e grotteschi che a sorpresa acquista toni da tragedia, mentre “Patto di Sangue” è un noir enigmatico e misterioso.
La regia di Daniele Abbado, con una recitazione tesa sul punto di esplodere, rende la drammaticità di una umanità disperata in corsa verso la morte e anche la scena su due livelli di Graziano Gregori, grazie a intelligenti trasformazioni da un’opera all’altra, ne coglie sfumature e differenze.
Nella “Rosa di carta” una donna morente mostra al marito ubriacone e violento un fagotto pieno di denaro, ma poi lo nasconde e sprofonda in catalessi. L’uomo incolpa di furto le vicine e si scatena una caccia al tesoro grottesca e sacrilega. Ritrovato il denaro, l’uomo subisce un processo di redenzione in un delirio intriso di pentimento, erotismo e necrofilia. Dopo una danza macabra con la defunta vestita a festa s’immolerà (come Brunhilde) nel rogo che si sviluppa dalla rosa di carta deposta sul seno della donna e tutto si tingerà di rosso.
Ritroviamo citazioni del repertorio lirico della tradizione: nella parte superiore della scena è inquadrata una soffitta dalle pareti vetrate e un letto sfatto che fanno pensare a Bohème o Traviata (peraltro menzionata nel libretto); uno squallido interno reso ancora più misero dal rumore della pioggia battente e dai sinistri colpi d‘incudine (che rimandano a Siegfried) del marito-fabbro; il movimento continuo e convulso, la situazione in cui si scatena l’umana avidità, le litanie funebri intonate dalle vecchie beghine ricordano un Gianni Schicchi virato al grottesco.
Nel “Patto di sangue” una ragazza, anziché vendere la propria purezza per denaro come vorrebbero madre e zia, si concede a un povero arrotino a cui, dopo aver succhiato il sangue stipulando un macabro patto, toglierà senza ragione apparente la vita a colpi di forbice. L’impianto scenico si svuota e diventa più allusivo e misterioso, in un gioco di specchi, riflessi e ombre che contribuiscono a evidenziare la cifra enigmatica della seconda parte del dittico. La ragazza vestita di rosso ruota su sé stessa con sensuale movenza e la sua immagine, oltre che dallo specchio, viene moltiplicata da replicanti che appaiono e scompaiono nel buio per richiamare quel Teatro delle Ombre per cui Valle-Inclàn aveva concepito il retablo. La scena su piani separati fa convivere con efficacia il grottesco delle due mezzane che si muovono su piattaforme mobili in un’assunzione blasfema simile a un sabba con corpi deformi e zoomorfi e il finto idillio che sfocerà nel sangue, con effetti di vampirismo erotico tra colpi di gong e schizzi di sangue sulle pareti.
In sintonia con il modello del retablo, ripetizioni musicali e sceniche diventano elementi ricorrenti e trasversali: oggetti simbolici come la forbice e la scopa, alle rose di carta che calano dall’alto corrispondono i coltelli dell’arrotino, lancette inesorabili che ruotano per simboleggiare la corsa verso la morte prima di conficcarsi sul palcoscenico.
Matteo D’Amico rivela una scrittura ancora ”classica”, controllata e razionale, ricca di rimandi e corrispondenze musicali, dai contrasti ritmici ben calibrati, che si fa tesa e febbrile nel rispetto di una drammaturgia “forte”. La prima parte è caratterizzata da un declamato continuo, mentre nella seconda la partitura è più varia e affascinante per gli sprazzi di lirismo e un canto ipnotico intriso di spagnola malia della ragazza assassina. L’eredità della tradizione si ritrova nelle citazioni di situazioni operistiche, nell’attenzione alla parola e al testo, in stretta relazione con la musica, dove emergono parole spagnole per sottolineare la matrice originaria, aggiungendo sonorità incantatorie. A livello orchestrale strumenti “popolari” (nacchere, chitarra e fisarmonica) hanno particolare risalto nei momenti più intensi a livello emotivo.
Marcello Panni dirige con precisione il ridotto organico, ottenendo sonorità forti e trascinanti, ma sempre ritmate.
Un plauso a tutti gli interpreti per doti drammatiche e accurata dizione, qui necessarie per un canto al limite del parlato fondato sulla recitazione. Fra tutti si distingue Roberto Abbondanza per l’interpretazione tesa e coinvolgente del marito di Floriana, interpretata da Manuela Bisceglie. Gabriella Sborgi (dalla suggestiva voce grave) e Patrizia Orciani sono le beghine dai volti scavati che ricordano drammatiche figure di El Greco, ma anche le grottesche mezzane (rispettivamente la madre ubriaca e la zia Volpe). Tania Bussi ha voce troppo chiara per una ragazza vampira, Mirko Guadagnini é un intenso arrotino la cui voce gradevole si screzia di dolcezza. Completa il cast Dario Giorgelé (Pepe).
Anche quest’anno l’intima cornice del Goldoni ha tenuto a battesimo con successo un’opera contemporanea, come avveniva ai tempi del teatro di corte con i fasti dell’opera barocca, aggiungendo un ulteriore tassello a un genere ancora vitale e ricco di comunicativa.
Visto a Firenze, teatro Goldoni, il 21 maggio 2009
Ilaria Bellini
Visto il
al
Goldoni
di Firenze
(FI)