Lirica
PELLéAS ET MéLISANDE

Il trionfo della densità

Il trionfo della densità

L’ultimo Pelléas visto a Firenze era stato quello lucido e analitico di Giuseppe Sinopoli andato in scena al Maggio nel 1999 con regia di Dieter Dorn e un cast internazionale; ora è la volta di un team tutto italiano: direzione, regia e cantanti per una produzione che riporta il Festival fiorentino a livelli di eccellenza.

Alle prese con il dramma-manifesto del simbolismo il regista Daniele Abbado e lo scenografo Giovanni Carluccio (ideatore anche delle luci) creano uno spettacolo antidescrittivo e claustrofobico che risulta efficace nel trasportare lo spettatore in una autentica zona d’ombra: il cupo regno di Allemonde immaginato da Maeterlinck/Debussy, ma, per estensione, anche tutto ciò che, come la punta di un iceberg, rimanda alle nostre indicibili e non dette angosce e paure. Il regista, più che simboli o impressioni, vuole trasmettere un’atmosfera d’inquietudine che affonda nell’irrisolto e nello sconosciuto e non a caso prevale il buio, protagonista degli interludi suonati a sipario chiuso nella penombra, al punto che il pubblico, quando esce dalla sala, avverte un bisogno fisico e incoercibile di Luce.

L’impianto scenico è costituito da un’ellisse dalla grigia superficie scabra, quasi petrosa, che allude a un occhio stilizzato o a un cannocchiale dentro a cui viene talvolta abbozzato l’interno del castello. Nel corso dell’opera la struttura ellittica si frammenta  e ricompone nei suoi elementi strutturali: dimezzata, diventa una mezzaluna le cui pareti curve  imprimono un senso di instabilità ai movimenti dei personaggi che vi oscillano con disagio, oppure si raddoppia generando ellissi concentriche da cui si sporgono Pelléas e Mélisande sull’orlo di un abisso che crea vertigine con al centro un albero rovesciato annegato in un iride azzurro, cielo ceruleo o fallace specchio d’acqua. Se pur in continua trasformazione, la struttura scenica è sempre riconoscibile nei suoi elementi costitutivi (come le tessere di un caleidoscopio) ed è pertinente con un amore  senza sbocco la cui dichiarazione, sussurrata e impercettibile, avviene in un labirinto grigio che emerge dal nero. La struttura ellittica lascia talvolta lo spazio a una rampa inclinata o a un’alta impalcatura metallica da cui si sporge Mélisande che tende a Pelléas, anziché i capelli (qua cortissimi), un velo che i due tirano allo spasimo per cercare di annullare la distanza.
Visionarie anche le proiezioni non figurative acquerellate sullo sfondo nei toni del ruggine, dell’arancio e del cobalto, come pure i giochi di ombre simili a venature marmoree che ammantano la scena di un vago disegno. L’opera della penombra, senza cielo e senza luce, trova nell’ultimo quadro una luminosità grigia e diffusa presaga di morte. Ancelle velate vestite di bianco si dispongono nello spazio vuoto con movimenti ieratici, Mélisande è adagiata in verticale  su di un pannello luminoso con il braccio piegato che evoca una deposizione sacra, le luci si abbassano, il letto di luce diffonde  ancora qualche bagliore e poi, come una lucciola prigioniera in un bicchiere, si spegne nel silenzio.

Pelléas è un’opera che più di altre richiede un’idiomaticità forte necessaria per dare il giusto rilievo alla densità della parola nell’ambito della frase. Se sulla carta un cast tutto italiano destava qualche perplessità, alla prova dei fatti si è rivelato stilisticamente adeguato e tutte le voci hanno dimostrato padronanza della  declamazione francese.
Monica Bacelli è una Mélisande enigmatica e irraggiungibile, dai movimenti rarefatti esaltati dall’abito bianco impalpabile: una Mélisande inedita per la forza di fondo, i capelli corti e un sorriso carico di mistero; la voce nitida è esente da languore e si applaudono le doti di dizione e fraseggio. In questa edizione il ruolo di Pelléas ( la cui tessitura è in una zona di confine fra tenore e baritono) è stato affidato alla fresca voce tenorile di Paolo Fanale che, con un canto duttile e omogeneo, ne ha esaltato  purezza adolescenziale e naïveté in opposizione alla vocalità baritonale matura del fratello rivale. Ottimo anche il Golaud di Roberto Frontali dal canto possente intriso di passionalità mediterranea che ha fatto scaturire tutta la ruvida violenza del personaggio. Sonia Ganassi è una Geneviève materna e partecipe e la scena della lettera convince per l’ intensità di accenti. Tragico e dolente, ma forse troppo senile, il vecchio Arkel di Roberto Scandiuzzi. Perfetta Silvia Frigato nel ruolo del fanciullo Yniold per la voce argentina e il gioco scenico credibile e spontaneo. Conclude adeguatamente il cast Andrea Mastroni nel doppio ruolo del pastore e del dottore.

Protagonista indiscusso Daniele Gatti per aver impresso una  direzione personale, drammatica e coinvolgente agli antipodi dell’impressionismo a cui spesso l’opera è associata. Quello che caratterizza la direzione musicale è un suono denso e carico di tensione che sprigiona una forza teatrale inedita ed appassionante. La densità orchestrale crea una situazione senza scampo in sintonia con la regia e, nonostante un peso specifico importante che guarda a Wagner ma anche a Mahler e Strauss, Gatti mantiene distinti i diversi piani sonori e differenzia  i singoli gruppi strumentali. L’orchestra del Maggio dà una prova all’altezza della fama con un suono nitido, ricco di colore e soprattutto di materia.

Visto il
al Maggio Musicale Fiorentino di Firenze (FI)