Il terzo appuntamento della 23ma edizione di Invito alla danza ha proposto al suo pubblico assiduo e numeroso una suite di coreografie della Peridance Contemporary Dance Campany di New York, in prima nazionale.
Attiva dal 1984 da Igal Perry che ne è ancora direttore artistico e coreografo principale, la Compagnia di Manhattan è un centro coreografico completo che accanto all'attività teatrale affianca quella di insegnamento in sinergia con i coreografi e le coreografe residenti (ospiti cioè ella compagnia per un lasso variabile di tempo) che formano i danzatori e le danzatrici che studiano nel complesso.
Una realtà produttiva e creativa a 360 gradi che, non nuova ai tour anche fuori dagli States, ha portato a Roma cinque coreografie firmate oltre che del fondatore Igal Perry da Dwight Rhoden, Ohad Naharin
e della coreografa Sidra Bellognuna. Coreografie con un organico che varia da due a otto interpreti.
Sul palco si avvicendano o danzano insieme alcuni dei danzatori e delle danzatrici più assidui e assidue della compagnia, che intessono tutti e tutte collaborazioni anche con altre realtà della danza statunitense secondo una logica poco italiana che preferisce un organico delle compagnie più rigido e campanilista.
Gli e le otto interpreti della Peridance Contemporary Dance Campany diversi e diverse per età e percorso professionale si distinguono per la precisione tecnica e la sensibilità coreutica con la quale si presentano, imponendosi come cifra stilistica della compagnia immediatamente riconoscibile.
Cifra stilistica al crocevia tra una rivisitazione in chiave neoclassica della danza contemporanea di oggi e una sperimentazione sinergica che rielabora registri e stili provenienti da ambiti diversi (compresi il musical di Broadway e le coreografie Hollywoodiane sempre inserite in un contesto di contemporanea) quando non crea stili e filosofie nuove come nel caso del coreografo israeliano Ohad Naharin, direttore artistico della Batsheva Dance Company, creatore del nuovo linguaggio coreografico Gaga.
Dei classici nei loro rispettivi capi di azione, tutti caratterizzati da un minimalismo della partitura che misura la forza e il dinamismo della musica con un nitore formale di grandissimo controllo proprio come quello riscontrabile nelle coreografie che usano le straordinarie doti dei danzatori e delle danzatrici in una serie di lavori a levare. Lavori che funzionano proprio in quanto l'esuberanza è controllata da un aplomb stilistico che concede spazio al virtuosismo senza che diventi ostentazione nel quale la complessità non è mai esibita ma pudicamente messa tra parentesi da un formalismo coreutico di contenuta eleganza.
Interessanti le note esplicative di ogni singola coreografia che si ritagliano smepre un cantuccio lirico nel quale affondano a piene mani in un discorso sul presente lucido e consapevole.
Infinity così si ispira alle immagini rurali molto frequenti nei quadri di Salvatore Dalì e raffigura la delicata vulnerabilità dell'immagine umana in un contesto di vasti spazi aperti mentre Mabul,
passo a due estratto dall’omonima coreografia di Ohad Naharin (del 1992) riflette la moderna vita israeliana.
Un occasione ghiotta di vedere un esmepio di lavoro nordamericano per il pubblico romano che non lesina gli applausi richiamando danzatori e danzatrici sul palco ripetutamente.