Un uomo che camminava in un campo si imbattè in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. La tigre, lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardò giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva.
Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!
Pezzi d'uomo è uno spettacolo che ha il sapore di certe fragole assaggiate sull'orlo di un precipizio. Ha il sapore dolce di una vita profonda, che ti accorgi di vivere intensamente proprio quando sei in pericolo di non poterla perpetuare. Ti accorgi che la vita, e tu con lei, è fatta di pezzi, di frammenti, e che tu non sei altro che il loro collage, puoi sforzarti di comporli in un quadro, metterli in un insieme coerente, ma lo sforzo è quello di qualcuno che deve ancora arrivare sul bordo del burrone. Quando ci arrivi, con la tigre dietro, l'affanno, la paura, e ti appendi alla vite, e ti appendi alla vita, sai che i tuoi pezzi possono disfarsi, cadendo, ma che in quel volo può racchiudersi tutto un gusto, tutto un senso. Allora cominci a respirare, ti affidi al caso o al destino, ti concentri nell'attimo, ti rilassi, ti abbandoni e la cogli.
La regista Roberta Fossati ci un presenta Giovanni Battaglia intimo, poetico, a tratti comico, sempre magistrale. Un attore che il pubblico napoletano sta imparando a gustare, come si gusta un buon piatto assortito di vari ingredienti e sapori, avendolo già incontrato in diversi allestimenti di Laura Angiulli dal 2010 ad oggi. In queste sere, fino a domenica 24, porta sulla scena del teatro "Galleria Toledo" la profondità e la consapevolezza zen di certi koan.
Attraverso i suoi sette monologhi, che nascono dalla necessità di raccontarsi al pubblico, al mondo, attraverso il teatro, questa macchina di amplificazione esistenziale che qui viene ridotta ai suoi rementi essenziali, alla recitazione, a poche musiche, a una sedia e ad un tavolo come scenografia, a un minimale e raffinatissimo gioco di luci (il maestro Cesare Accetta ci suggestiona ancora una volta con i suoi colori e le sue ombre - la luce non è che l'altra faccia del buio, come la parola lo è del silenzio), attraverso tutto questo, lo spettatore viene tirato dentro un gioco che, come solo la grande arte sa fare, sposta continuamente i confini tra realtà e finzione, pianto e riso, prima persona singolare e plurale.
La drammaturgia è realizzata dall'antropologo Duccio Canestrini con lo stesso Giovanni Battaglia, e si sente. Anche sotto questio aspetto, come sotto tutti gli altri, le parole non sono eccessive, non eccedono mai la necessità dell'espressione autentica. Non eccedono perchè non cedono alle lusinghe dell'orpello verbale, non cadono nella tentazione dell'ammiccamento al pubblico che, in uno spettacolo monologato a tratti comico, potrebbe scivolare nel becero cabaret da tormentone, oggi tanto in voga.
Così i costumi, il corpo, le figure a cui esso dà vita, i pezzi in cui si scompone, e la voce sempre discreta, mai urlata a nessun costo, la recitazione nel suo comlesso e la regia tutta, ci offrono un saggio di teatro dove trionfa il dettaglio, vince la pulizia, esulta la sfumatura, esplode il tratto.
Il pubblico colto già lo sa, in questo mondo vincono i grandi numeri, quelli dello share, quello delle somme spese per produrre una trasmissione un film o uno spettacolo, quello dei cast numerosi, delle scenografie imponenti, delle luci sfavillanti, dei colori abbaglianti, dei pubblici che fanno lunghe file. Per impressionare l'occhio e l'orecchio, pare che non ci sia altra ricetta che questa, sommare un pezzo all'altro, aggiungere aggiungere aggiungere, sempre di più è sempre meglio, confusione, baccano, fumo negli occhi e nel palato - chi più ne ha più ne metta.
Giovanni Battaglia e Roberta Fossati, invece, lavorano per sottrazione, levano ogni orpello, escludono qualunque superfluo, ci restituiscono l'acquolina per un boccone profumato e succulento, ci riportano all'importanza dell'essenziale, a ciò che davverò ci può emozionare, al dialogo con un amico, al ricordo della madre, all'incontro con una donna in strada, all'imbarazzo vero di un'esibizione televisiva mal digerita.
In questo spettacolo che tutti dovrebbero vedere, perchè nel ritmo e nello stile ricorda il miglior Gaber, per dirne uno, l'emozione prende corpo nell'attore e nello spettatore insieme, l'empatia si fa strada attraverso un arcobaleno emotivo, la riflessione decolla a partire dalle suggestioni verbali ora dolcemente satiriche, ora profondamente interiori.
Pezzi d'uomo è uno spettacolo che frantuma la mascolinità, l'essere uomo come maschio, in tutti quei tratti che lo accomunano con l'umanità, l'essere uomo come essere umano. Vi si ritrova, vi si rigode la necessità dell'origine, la cellula base della vita, quella stessa da cui origina il teatro.