PHAEDRA'S LOVE
Di Sarah Kane
Sulla scena i mobili neri specchiati, uno dei peggiori arredamenti degli anni settanta, ci trasmettono un senso di oppressione. Questi fungeranno da stanza, reggia, prigione ed esterno del palazzo reale dove finiranno i loro giorni tutti gli appartenenti alla famiglia di Teseo, esiliato re di Atene.
Sin dall'inizio dello spettacolo cerchiamo con grandi sforzi di trovare anche nel profilo psicologico dei personaggi qualche attinenza con questa percezione di gravosità che la scena ci evoca, ma ciò risulta piuttosto difficile; gli attori infatti, non sostengono minimamente la violenza e il senso di ostilità che pervade completamente un testo come quello scritto nel 1996 da Sarah Kane, in una rivisitazione della tragedia di Seneca.
Sia la scrittrice inglese, che l'autore latino, con modi diversi volevano evidenziare la tragicità dell'opera e dare allo spettatore la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa che è oramai immutabile e che porterà solo a nuove rovine. In modo maggiore, nel testo scelto dalla regista, le intenzioni della Kane erano chiaramente quelle di far trapelare ad un attento osservatore, come la figura dell'eroe tragico, rintracciabile sia in Fedra che in Ippolito che nella stessa Strofe, fosse pura e immutabile; eroe che soffre dominando con il suo immenso dolore la scena.
Lo spettacolo, invece, procede come se in realtà, nulla dovesse accadere; gli attori non riescono a trasmettere al pubblico nulla delle loro storie, tanto da non trovare all'interno della scena un reale conflitto, essenza stessa del teatro, né tantomeno delle emozioni.
I dialoghi procedono piatti e tutti molto simili tra loro, senza una grande differenza tra gli stati d'animo dei personaggi nei diversi momenti della storia. I gesti sono stereotipati e privi di intensità caratteristica che li rende tutti uguali.
L'uso improprio e spropositato della violenza nei discorsi, nei gesti e negli atti sessuali è fuori luogo e risulta verso la fine della pièce volgare ed eccessivo, quasi grottesco.
Il finale ci fa pensare che ci troviamo al cospetto di una farsa più che di una tragedia, perchè morire in scena come in un vecchio film di samurai, è veramente irreale nonostante questa scelta si giustifichi con il continuo parallelismo con Kill Bill operato dalla regia.
Dalla scena non trapela un vero studio e un attento controllo del testo e nemmeno una rilettura con fine di interpretazioni altre.
A noi pubblico inconsapevole arriva una fredda e meschina storia di violenza, masturbazione e aridità di spirito che difficilmente è riconducibile ad un vero e proprio percorso interiore degli attori o della regista, tanto meno ad una esecuzione piatta delle intenzioni dell'autrice Sarah Kane.
Visto il
al
Belli
di Roma
(RM)