C’è molta politica nella pièce "Piccola patria", soprattutto la politica più attuale, legata alle correnti di pensiero che vedono come valore preminente la chiusura a tutto ciò che è diverso, e per questo percepito come estraneo o addirittura ostile e pericoloso.
C’è molta politica nella pièce Piccola patria, soprattutto la politica più attuale, legata alle correnti di pensiero che vedono come valore preminente la chiusura a tutto ciò che è diverso, e per questo percepito come estraneo o addirittura ostile e pericoloso.
Il discorso politico, però, è qui più ampio e profondo, non si risolve in una semplice strizzata d’occhi all’oggi, semmai manifesta un richiamo al senso di responsabilità di ciascuno di noi, inteso come cellula portante della società. Compito non facile, in un mondo in cui l’irrazionalità e le reazioni emotive sembrano aver preso il posto del dialogo e del confronto civile.
Più che un referendum
Lo spunto dello spettacolo affonda le sue radici nel lontano XV secolo. Nel 1440, infatti, in seguito a un errore nel tracciare i confini tra Stato Pontificio e Repubblica di Firenze, un piccolo territorio fra Toscana e Umbria – la Repubblica di Cospaia – proclamò la propria indipendenza, che mantenne fino al 1826. E proprio attorno a un referendum per l’autonomia dall’Italia, indetto nella cittadina non meglio specificata di San Verdiano, ruotano le vicende dei tre personaggi dell’opera: il promotore del referendum stesso, Corrado, la sorella Caterina e il suo ex compagno, Lorenzo.
La tensione che si respira fin dall’inizio sulla scena sembra soprattutto legata a questioni ideologiche: da un lato Corrado, l’assertore dell’indipendenza e della separazione dal resto del paese; dall’altro Lorenzo e Caterina, che al contrario disprezzano il piccolo universo di tradizioni e consuetudini di San Verdiano. Ma c’è molto altro: emerge infatti una vicenda tragica (l’incendio della scuola che dieci anni prima avrebbe dovuto ospitare il referendum e che provocò una vittima) che riguarda i tre protagonisti, in un crescendo noir che conduce allo spezzarsi traumatico di legami sentimentali e familiari. Gli obblighi morali e le responsabilità civili di ciascuno si infrangeranno contro gli egoismi personali, che prenderanno il sopravvento in un finale di estrema drammaticità.
Nel cuore della scena
La scena riproduce l’interno di un seggio elettorale: su un lungo tavolo sono posate l’urna e le schede per il referendum che i protagonisti – in qualità di presidente e scrutatori – dovranno siglare e piegare. Ma è il contesto a rendere l’insieme molto coinvolgente: l’ambiente ristretto della Sala della Cavallerizza “costringe” infatti gli attori a recitare a strettissimo contatto con gli spettatori, una vicinanza che rende molto elevato il tasso di partecipazione emotiva, che cresce sempre di più fino all’esplosivo finale, quando appare chiaro che la frattura più grave non sarà quella che separerà San Verdiano dal resto del paese ma quella che dividerà per sempre, tra non detto e ipocrisie, i tre personaggi.
Inquietanti interrogativi
Si è detto della particolare ambientazione dell’opera. Le prove degli attori ne appaiono avvantaggiate: Simone Faloppa è convincente e mellifluo nello squadernare le sue convinzioni politiche e, al tempo stesso, la sua piccineria morale; Gabriele Paolocà e Gioia Salvatori mettono in scena un complesso rapporto che, tra personale e politico, porta a uno strappo tanto doloroso quanto irreparabile. Uno spettacolo impegnativo e adulto, che semina inquietanti interrogativi sulla nostra coscienza pubblica e privata.