Émile Zola sosteneva che adattare un dramma da un romanzo significasse creare un’opera “bastarda” e non sempre valida e vitale; in proposito scrisse: «Inevitabilmente, quando si trasferisce un romanzo a teatro, non si può che ottenere un’opera meno completa, d’intensità inferiore; in poche parole, si rovina il libro, ed è sempre un compito mal fatto». L’opinione di Zola era ed è, ancor’oggi, indubbiamente radicale perché fortunatamente ci sono delle eccezioni che confermano la regola, questo è il caso di Pierre&Jean, pièce teatrale adattata da Massimiliano Palmese dall’omonimo romanzo del 1888 di Guy de Maupassant, caso vuole coevo proprio di Zola. La riduzione drammaturgica del romanzo maupassantiano di Palmese – già traduttore e autore dell’adattamento de Il primo processo di Oscar Wilde – non tradisce la ricerca della rappresentazione del reale dell’autore normanno, tantomeno il suo pessimismo che mira a smascherare l’ipocrisia, la crudeltà, l’egoismo, nonché la stupidità dell’essere umano. La coralità del corposo romanzo naturalista si riduce in quest’adattamento scenico a soli quattro personaggi: Pierre, Jean, Madame Roland madre in pensione dei due protagonisti, e la giovane vedova Rose, amica di famiglia. Ma in scena – quella del Grenoble, l’istituto di cultura francese ha dedicato al romanziere una manifestazione di tre giorni: Autour de Maupassant, fatta di dibattiti, proiezioni cinematografiche e appunto messinscena teatrale – in una scena ridotta all’osso: un tavolino, due sedie posti al centro e due microfoni siti ai due lati del palcoscenico, compaiono soltanto due attori: Raffaele Ausiello e Carlo Caracciolo, cui è affidato l’arduo compito di interpretare più personaggi. Senza impalcature, travestimenti, cambi di scena ai due attori, la pulita e delicata ma sempre decisa regia di Rosario Sparno, non lascia che utilizzare la loro voce e il loro corpo per dar vita a un dramma familiare logorato dal vil potere del denaro. Carlo Caracciolo interpreta i due personaggi astuti, scaltri, sofferenti: Pierre il fratello maggiore della famiglia Roland, piccoletto dai capelli scuri e baffuto, e la giovane Rose che nasconde dietro la sua vedovanza curiosità e tanta malizia. Una erre marcatamente rutilante differenzia l’interpretazione di Pierre da quella di Rose, l’alternanza delle voci è continua ma lo spettatore non si confonde mai in quanto ogni personaggio è fortemente tipizzato. Raffaele Ausiello impersona invece i due personaggi borghesi, corrotti, individualisti: Jean, il più giovane dei fratelli Roland, alto, biondo, affascinante e la madre, bella quanto il figlio, finta mamma-chioccia e donna piena di segreti. Anche in questo caso è ancora la voce che diversifica i due ruoli, spavalda per Jean e stridula per mamma Roland, ma qui la differenziazione è sottolineata altresì da gesti effeminati talvolta un po’ troppo ridondanti. Le vite di tutti i personaggi scorrono parallele, e sempre affiancati appaiono i due attori sulla scena, seduti al tavolino l’uno di fronte all’altro quando interpretano i ruoli femminili, o in piedi dietro le siede quando incarnano i due fratelli, o ancora ai microfoni quando danno voce a personaggi secondari. I gesti e i movimenti sulla scena ruotano dunque attorno a questo parallelismo, che mai si perde nemmeno quando Jean riceve un’ingente eredità da un vecchio amico di famiglia, acuendo la rivalità troppo a lungo sopita con il fratello Pierre, svelando la relazione adulterina della madre e l’identità del suo vero padre. L’avidità e il denaro sconquassano la famiglia Roland, la quale non perde però il suo aplomb tipicamente borghese, una compostezza che si esprime proprio tramite questi reiterati ma efficaci movimenti paralleli degli attori sulla scena. Dopo il Grenoble il dramma è andato in scena a Palazzo De’ Liguoro, speriamo che presto il pubblico partenopeo, e non solo, abbia ancora la possibilità di vedere altrove questo riuscito adattamento del grande romanziere francese.
Pierre e Jean