Va in scena al Teatro San Ferdinando, all’interno delle produzioni che il Teatro Stabile di Napoli sta dedicando alle rivisitazioni ed agli adattamenti di grandi testi teatrali, Pigmalione di G.B. Shaw per la regia di Benedetto Sicca. Una messa in scena che traspone l’originaria ambientazione della Londra edoardiana nella Napoli del primo Novecento, per un adattamento linguistico, curato dal drammaturgo Manlio Santanelli, che sostituisce all’originaria contrapposizione tra inglese e cockney (il dialetto proletario parlato nei quartieri periferici di Londra) l’italiano ed il dialetto napoletano, gergalizzato in uno slang che ammicca all’avanspettacolo ed alla commedia di tradizione popolare. E’ infatti per mezzo del suddetto rapporto linguistico che si struttura il tema fondante dell’opera: la riflessione sul conflitto tra forma (espressa dal linguaggio e dalle buone maniere) e sostanza (propria dell’identità umana).
Si narra infatti, nell’opera originale così come nella rivisitazione, di un professore di fonetica che scommette con un amico di poter trasformare una umile fioraia in una raffinata donna della buona società insegnandole semplicemente l'etichetta ed il linguaggio usato nelle classi più elevate. L’esperimento ha successo. La donna, plasmata secondo la forma ideale dettata dai canoni dell’epoca, si conforma così bene al contesto da illudere tutti, restando però smarrita nella perdita, insieme all’idioma originario, della propria identità.
Se da un canto risulta gustoso l’adattamento che Santanelli adopera, d’altro canto la messa in scena, a tratti statica e legata ad un battibeccare non sempre piccato, è spesso lenta e poco incisiva. Interessante al contempo è, ad esempio, l’originaria pioggia londinese, presente nella prima scena, che diviene, nel suo permanere anche nel dipanarsi della storia, fonte di purificazione. Accumulandosi sul palco, si trasforma in acqua stagnante, specchio dell’impasse esistenziale della protagonista.
Da un registro recitativo, sempre e per tutti gli interpreti, volutamente manierato, si discosta con innumerevoli slanci interpretativi, carichi di sovrabbondanti accenti espressi, la prova della protagonista Gaia Aprea.
Se alla conclusione del corposo primo atto, il timido rumoreggiare di qualche spettatore denota l’assenza di sintesi, l’estrema ridondanza di tema del secondo, alla ricerca di una conclusione (forse più originale dell’originale), ferisce a morte l’interesse degli astanti.