Devi giocare la tua partita sull'uomo, non sulla mano. Guardare l'uomo, studiarlo. Tu ti sei innamorato della mano, è per questo è che hai perso.
(Frankie, atto I)
Un moderno poema del desiderio, un'epica in cui si gioca qualcosa per combattere la perdita di qualcos'altro: così si potrebbe definire questo nuovo allestimento di Poker, curato dalla Compagnia Gank, in collaborazione con il Teatro Stabile di Genova.
Opera del drammaturgo inglese Patrick Marber, Poker è il ritratto di sei esistenze maschili, tutte diversamente segnate dal tormento e dalla solitudine, che, ogni domenica sera, cercano un senso o una possibilità di riscatto nella partita a carte giocata nel seminterrato di un ristorante. Così, sullo sfondo di una poco confortante periferia londinese, prendono corpo le idee, le illusioni, le paure di questi uomini: c'è chi soffre per la lontananza della figlia piccola, dopo la separazione dalla moglie, chi insegue il sogno di Las Vegas o quello di un improbabile ristorante in una toilette pubblica, chi lotta contro il demone dei debiti e del gioco compulsivo, chi infine soffre come genitore di un figlio adulto, troppo lontano e perso nelle sue dannazioni personali. Può una partita a poker aiutare i protagonisti a vincere contro i loro fantasmi o servirà solo a dar corpo e voce, a questi fantasmi, così suggestivamente evocati?
Il risultato complessivo è quello di un ritratto potente ed efficace della natura maschile, anche grazie a un profilo mai macchiettistico e sempre curato, sia a livello di testo che di regia; in questo senso, il testo ha quasi vent'anni, ma non li dimostra, offrendo una prospettiva tutt'altro che banale sul tema del maschio contemporaneo. La risposta è, appunto, corale ed aperta, una visuale tutt'altro che ottimistica, in cui ogni protagonista, con lo stesso rabbioso slancio di un eroe omerico, affronta la vita conoscendo il solo istinto dell'azzardo, del giocarsi il tutto per tutto; un modo per sentirsi vivo, più che per sentirsi meglio.
In questo scenario, gli oggetti del desiderio o dell'indignazione sono sempre evocati e lontani: lontane sono le donne, dalla figlia piccola del cuoco Sweney, alle presunte amanti del cameriere Frankie, senza dimenticare la famigerata ex moglie di Stephen ( "lui una volta sola ha giocato una partita contro una donna: è stato un disastro e il gioco era il divorzio").
Ma lontani sono anche i luoghi, da Las Vegas alla terribile periferia dove l'ingenuo Pollo vuole aprire il suo improbabile ristorante (azzeccatissima in questo senso la citazione de La terra desolata di Elliott); lontani, infine, sono proprio i personaggi stessi l'uno per l'altro, come drammaticamente è evidente nel rapporto tra Stephen e il figlio bugiardo e ludopatico Carl.
In questa "terra desolata", l'azione scenica va avanti proprio grazie all'interazione efficace dei personaggi; poco spazio è lasciato al "volo fatale" dell'eroe, alla speranza di cambiamento e riscatto se non, per alcuni,alla presa di consapevolezza della propria condizione. Ed è da questo studio attento sul personaggio che prende le mosse il lavoro lodevole e attento della regia, impeccabile in tutto l'allestimento, dalle scelte di luci e suoni, alla costruzione cristallina dei dialoghi; il ritmo è incalzante e perfetto, costruito su tempi comici curati, che riescono a sostenere perfettamente uno humour tagliente e mai fine e se stesso. In questo senso, è notevole anche la sintonia e la vis comica degli attori, che mantengono sempre un palleggio perfetto, privo di sbavature.
Magistrali le scene dei doppi dialoghi, portati avanti parallelamente, a due a due; anche in questo caso, risulta interessante e riuscita la scelta di mantenere una bipartizione della scena (sala e cucina) nel primo atto, per unificarla nel secondo in un unico luogo di perdizione, lo "scantinato" dello scontro finale.
In generale, l'azione è portata avanti su un climax molto studiato, concepito con cura, in un crescendo di tensioni che aspetta l'incontro finale al tavolo verde per esplodere; viene in mente le lezione drammaturgica del grande Eduardo De Filippo, che spiegava come, nell'azione scenica, occorresse tenere le carte coperte per poterle disvelare al momento giusto, cioè all'atto finale.
L'allestimento di Poker dimostra di saper giocare, in questo senso, le sue carte, tenendo lo spettatore inchiodato al tavolo verde dei personaggi sino all'ultimo, con uno sguardo amaro, forse, sulla vita, ma una riflessione lucida e attenta sullo strano e fascinoso gioco che ci vede ogni giorno mazzieri e increduli giocatori dinanzi al destino.