Lirica
POMME D'API - MONSIEUR CHOUFLERI RESTERA CHEZ LUI

Il dittico di Offenbach

Il dittico di Offenbach

Del fastoso Secondo Impero Jacques Offenbach aveva celebrato, con pungente umorismo e con mordace ironia i vizi (tanti) e le virtù (poche, ahimè). Lo aveva fatto soprattutto da quando aveva avviato in società con Ludovic Halévy, giusto a metà degli Anni Cinquanta, il piccolo Théâtre des Bouffes Parisiens, in una zona poco frequentata dei Champs-Elysées. Eppure ai parigini piaceva molto essere presi in giro, mentre le musiche di Offenbach erano una cornice perfetta per le battute di Halévy, Crèmieux ed altri librettisti. Insomma il successo di quegli spettacoli fu tale che, di lì a qualche anno, la loro compagnia si trasferiva in una più capiente sala del Passage Choiseuil, cercando talora ospitalità, per il lavori di maggior respiro, anche in sale ancor più importanti come il Théâtre des Variétés o addirittura all'Opèra Comique. Nel quindicennio tra il 1855 ed il 1870 (l'anno della disfatta di Sedan, e della caduta di Napoleone III) nacquero molti titoli effimeri ma anche successi imperituri come "Orphée aux enfers", "La belle Hèlène", "Barbe-Bleu", "La vie parisienne", "La Grande Duchesse de Gérolstein" e "Périchole", che continuano a divertire gli spettatori d'oggidì.
Accanto ai lavori più impegnativi, Offenbach e i suoi collaboratori sapevano però costruire per il loro affezionato pubblico anche piccole piéces teatrali - poco più di scenette comiche condite da motivi musicali orecchiabili - quali il fortunatissimo "Monsieur Choufleuri restera chez lui…", presentato ai Bouffes nel settembre 1861. Un delizioso atto unico il cui libretto era scritto - sotto il pseudonimo di Monsieur de Saint-Rémy - da un gruppetto di amici, fra cui il fratellastro dell'Imperatore, cioè il Duca di Morny. Personaggio invero di grande cultura, amante dei salotti mondani e sincero estimatore del «Mozart dei Champs-Elysées», come lo aveva definito Rossini. La trama è persino banale: il signor Choufleuri malgrado la sua ignoranza è diventato molto ricco, e vorrebbe fare della sua casa un salotto di fama, aspirando a far parte dell'alta società parigina. Organizza un ricevimento, con l'intento di offrire agli invitati le voci di tre celebri cantanti del Théatre Italien, diretto allora proprio da Rossini; ma questi però declinano all'ultimo un invito poco gradito. E' un vero disastro, e il povero Choufleuri è disperato, però la giovane figlia Ernestine, appena uscita di collegio - ma già in tresca amorosa con lo spiantato compositore Chrysodule Babylas, ha un'idea geniale. Dato che nessuno degli invitati li conosce di persona, saranno prioprio lei, papà e Babylas ad impersonare per gli ospiti i tre celebri cantanti, imbarcandosi in un drammatico - si fa per dire - terzetto al termine del quale Babylas estorce a Choufleuri il consenso alle nozze minacciando di rivelare la verità agli ospiti. Una scena di travolgente comicità anche lessicale, a causa dell'idioma utilizzato dai tre, un italiano inventato al momento e pieno di strafalcioni; e che dà luogo ad un'esilarante parodia dell'opera italiana di quegli anni non tanto per la verve comica delle battute, quanto per l'ironia acuta e beffarda con la quale Offenbach mette in campo i più vieti stilemi musicali di un genere allora trionfante sulle scene parigine. L'effetto su di pubblico costretto a sbellicarsi dalle risa - allora come oggi - è naturalmente assicurato in pieno.
L'atto unico di "Pomme d'Api", scritto su libretto di Halévy & Busnach, risale invece alla seconda fase creativa di Offenbach, quando sull'onda dei successi del rivale Charles Lecocq  scelse d'adottare intrecci meno caustici e satirici, con situazioni che lasciavano spazio ad un certo sentimentalismo incline al cuore degli spettatori. Con soli tre personaggi in scena (il maturo industriale, Rabastens, il suo giovane nipote Gustave e la di lui ex-fidanzata Cathérine) musica e dialoghi compongono un meccanismo scenico pressoché perfetto: il primo cerca una nuova e giovane domestica, senza nascondere le sue velleità da dongiovanni; il secondo, costretto dallo zio a lasciare dopo due anni di felice frequentazione l'adorata fidanzata, se la ritrova assunta dallo zio come «femme de ménage» in sostituzione della vecchia governante. Ma Cathérine è una fanciulla certo incantevole nell'aspetto - il vezzeggiativo Pomme d'Api richiama la rossa e dolcissima mela appiola, che non si trova più -  ma del tutto sprovveduta nelle faccende domestiche, come risulta dalla esilarante descrizione delle cose che sa fare per bene. Tra cui ben tre modi di cuocere le uova - sode, in frittata e in tegamino - e l'accortezza di chiudere le porte aperte, ed aprire quelle chiuse…. Lei è naturalmente ancora innamorata del suo Gustave, anche se alquanto stizzita per l'abbandono; ma prima di tornare tra le sue braccia lo vuole mettere alla prova, flirtando civettuola con lo zio e promettendo addirittura di consolarsi con «..civili e militari, deputati e notai, possidenti e agricoltori, ussari e intellettuali, …vecchi e principi, baritoni e tenori, nani e tamburmaggiori", non importa poi se siano piccoli o grandi,  biondi o bruni, brutti o carini.
Tutto finisce bene, naturalmente. Gustave la riconquista con una toccante romanza, lo zio acconsente alle nozze e accorda loro una buona rendita. Attenzione, però: con una travolgente marcetta, la ragazza lo mette in guardia: se in futuro non righerà dritto sarà lei a piantarlo in asso, per prendersi un nuovo amante. Anzi,  addirittura «uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, eccetera»!
Due brevi atti unici, messi insieme per uno spettacolo senza grandi pretese ma esemplare per funzionalità e semplicità,  che già ha raccolto molti consensi allo scorso Festival Martina Franca e al Teatro Pergolesi di Jesi; successi replicati al Rossini di Lugo, nell'ambito del cartellone del Lugo Opera Festval 2011, almeno a sentire gli applausi più che convinti del pubblico. Merito della regia spiritosa di Stefania Panighini, e del lavoro d'équipe degli allievi della Scuola dell'Opera Italiana: Giada Tiana, Claudia Abendi e Lucia Ceccoli per le scene; Manuel Pedretti, Massimo Carlotto e Vera Pierantoni Giua per i costumi; ed infine Daniele Naldi per le luci. Anche le giovanissime ed affiatate voci in campo venivano dai masters della Scuola bolognese, ed erano quelle di Mattia Olivieri (Choufleuri), Anna Corvino (Ernestine), Francisco Brito (Babylas), Mert Sungu (il domestico Petermann). Oltre naturalmente a quelle di Anna Maria Sarra (Cathérine), Gustave (ancora Mert Sungu) e Pavol Kuban (Rabastens).
In buca molti elementi dell'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, fondazione che ha coprodotto lo spettacolo. Leggeri e brillanti nella giusta misura, con un'inaspettata souplesse, sostenuti  dall'entusiasmo di una bacchetta sbarazzina ma molto attenta e sicura nel mestiere: ed era quella di Giacomo Sagripanti, adeguata nella verve narrativa, musicalissima nella ricca combinazione di colori e di cangianti luminosità. Proprio quello che serviva per conferire il giusto respiro, la giusta vitalità a questi piccoli capolavori intrisi di spumeggiante musicalità e pieni di fulmineo umorismo. Come quello dell'aneddoto che chiude la vita del compositore franco-tedesco: il giorno che passò miglior vita, si presentò in visita l'attore Léonce. Voleva notizie sulle condizioni di salute del suo amico, ma il portiere gli annunciò che la notte precedente era spirato serenamente, passando senza rendersi conto dal sonno alla morte. «Sarà assai stupito, quando se ne accorgerà!» sospirò meditabondo il vecchio artista.

Visto il
al Rossini di Lugo (RA)