Un plot incalzante di vicende agghiaccianti e di misfatti da cronaca nera, viene catapultato all’interno di un inferno moderno, quello di Jean Paul Sartre: una stanza senza finestre e senza porte, dove tre personaggi si ritrovano a condividere lo stesso letto e non sanno perchè.
Una traduttrice (Teresa Ludovico), un esperto in comunicazione (Gianluca Enria), una donna ossessionata dagli specchi (Francesca Mazza) e il personaggio del Valletto di Sartre (Leonardo Bianconi) – che qui diventa un diavolo alato in dipendenza da cocaina – “giocano” a procurarsi l’inferno post morte, torturandosi a vicenda e tirando fuori la verità sul motivo della loro fine e della rispettiva dannazione all’inferno. Tutti sono colpevoli di misfatti, omicidi, suicidi, ingiustizie.
La tortura è innescata anche nel meccanismo di fruizione dello spettatore all’inizio dello spettacolo. Nella prima scena l’emissione vocale del personaggio del Valletto è sottoposta a effetti di distorsione sonora, che provocano effetti di disturbo anche nell’esperienza percettiva dell’ascolto. La domanda è: questa voce martellerà le nostre orecchie per tutto il tempo dello spettacolo? Siamo all’Inferno.
La trappola, la tortura, il turbine incessante provocato dagli altri, diventa la ragion d’essere del coesistere. Dall’alto di un letto impazzito che può scendere o salire a comando, i personaggi diventano voyeur del mondo e possono commentarlo, come in un giornale radio o in un telegiornale. Sorprende il riferimento al giovane ricercatore Regeni scomparso recentemente in Egitto, la cui immagine viene proiettata e che diventa protagonista all'interno dal racconto del personaggio della traduttrice.
La stanza-inferno diventa un luogo da capogiro, il rifugio degli “assenti”e dove è impossibile dormire: “è possibile chiudere le palpebre da morti?”
La pena più grossa di questi personaggi è stata l’esistenza stessa, perchè “l’esistenza precede l’essenza”, per dirla con Sartre. Nel pensiero dell’autore francese ognuno scandisce la sua vita attraverso la propria azione, non c’è nessun creatore, ma solo la condanna di essere libero, libero di agire (da qui la scelta musicale di “Il mio canto libero” di Lucio Battisti di sottofondo in alcune scene nella prima parte dello spettacolo). Cos’è che allora condiziona fortemente l’umanità? Il giudizio del mondo sull’individuo, “l’inferno sono gli altri”. L’inferno diventa - in maniera abbastanza esplicita – metonimia della realtà, con uno sguardo sull’attualità dei nostri giorni.
Lo spettacolo di Andrea Adriatico non trascura i dettagli di scena e è di forte impatto estetico sin dall’inizio. I personaggi sono fortemente caratterizzati, il loro dramma enunciato, ma non approfondito. I protagonisti di Sartre restano fisicamente e letteralmente intrappolati nella messa in scena teatrale.
La domanda posta da uno dei personaggi all’inizio dello spettacolo “cosa succederà?” seguito dalla risposta “non lo so, aspetti”, crea un’aspettativa su qualcosa che non avverrà mai. L’azione di scena implode nei racconti dei personaggi, per chiudere con un finale interpretato in maniera poco convincente e inaspettato.
In chiusura i quattro personaggi scoprono che è possibile uscire da quella stanza infernale, ma preferiscono restare tra di loro, “a porte chiuse”, quelle porte psicologiche e verbali della tortura che essi stessi si infliggono.