L’apparenza nella società dell’effimero patinato e l’interiorità, il desiderio di piacere che fagocita il valore del rapporto di coppia e la realtà che viene stravolta dai vari punti di vista. “Pretty”, tratto da “Reasons to be pretty” di Neil LaBute, è un quadro sfaccettato di una condizione umana e sociale i cui esiti sono l’insoddisfazione e l’incomprensione reciproca. Il tono è umoristico e cinico e non vi è morale, ma solo intento sarcasticamente realistico.
Due le coppie le cui vicende si intersecano. Stefh (Fabrizia Sacchi) lascia Greg (Filippo Nigro) per uno sciocco equivoco, a causa del quale si sente considerata da lui non bella e desiderabile come vorrebbe. Carly (Dajana Roncione) è , al contrario, ben consapevole della sua avvenenza, tuttavia è tradita da Kent (Giulio Forges Davanzati), uomo vanesio e superficiale che non va al di là del giudizio estetico sul prossimo.
L’individualismo caratterizzato dalla gratificazione di sé è talmente imperante nei personaggi da fugare ogni legame profondo e da impedire anche la stima altrui, indispensabile nei rapporti umani. La mancanza di senso ultimo in tutto ciò è percepita solo da Greg, un bravo Fabrizio Nigro che caratterizza il suo personaggio con un impaccio e un’inadeguatezza dialettica che ne fanno un antieroe, vittima di qualcosa di incomprensibile.
L’explicit vede una sua riflessione sulla Venere allo specchio di Velasquez, laddove l’immagine riflessa rivela una realtà altra, celata da una bellezza peritura la cui importanza svanisce di fronte all’eternità.
La scelta di regia di Fabrizio Arcuri rappresenta la pièce in una scenografia mobile, dove 3 pedane girevoli mutano rapidamente gli ambienti. La scena è divisa in tre settori, di cui due laterali schermati da vetrate, che creano un effetto di altro luogo. I passaggi (dalla camera da letto della scena iniziale, al luogo di lavoro, ad un ristorante alla moda) sono tempestivi e belli a vedersi. Tutto si sussegue rapidamente e alle azioni si affiancano le riflessioni dei protagonisti il cui volto, non rivolto al pubblico, viene proiettato in primo piano sullo sfondo, come il riflesso allo specchio della Venere, la verità sotto le apparenze. Ottimo il parallelismo tra la metafora barocca e la società consumistica della bellezza omologata e fragile. Molto ben riuscita l’integrazione tra recitazione, uso dei mezzi multimediali, scenografie in movimento e colonna sonora (Dragostea din tei, canzone d’amore e di poco contenuto).
Il taglio registico e la recitazione credibile, a tratti fisica e sboccata nei diverbi irosi e realistici, nobilitano un testo i cui dialoghi, se non così ben caratterizzati, apparirebbero un po’ ripetitivi.
Un’ottima prova per la compagnia degli Ipocriti e un testo contemporaneo interessante e reso qui al massimo delle sue potenzialità