Cinquantasette anni: l'intervallo che trascorre fra le due epoche in cui è ambientato The Pride va sottolineato perché è esso stesso, il protagonista principale, ancor prima dei personaggi, che pure si ritrovano con gli stessi nomi e le stesse problematiche a vivere due storie sovrapponibili per sostanza, ma del tutto diverse per svolgimento ed incarnazione. Dalla repressione delle pulsioni sessuali del 1958, ad una libertà di espressione (che tuttavia sembra suggerire una certa frustrazione) del 2015, mantenendo come unico trait d'union scenico l'immutato arredo, fermo a quel transito negli anni '60 in cui il cambiamento delle forme, dei tessuti e dei materiali cominciava ad accennare ad un presagio di modernità (una scelta registica affidata alle scene di Andrè Benaim che tuttavia non risulta del tutto comprensibile o concettualmente condivisibile).
Due stanze nel cui interno si vivono vite difficili, condizionate dalle incerte o inespresse identità sessuali. Nella prima, si incrociano due vite vissute in modo completamente differente (cosa che avrà poi ripercussione anche sul modo di portare avanti le scelte più difficili): Philip (Luca Zingaretti) e Oliver (Maurizio Lombardi) si dividono i ruoli dell'omosessuale latente che fin da piccolo ha rinviato il momento di affrontare se stesso spostando in avanti ogni desiderio della sua vita (“prima o poi...”) e di quello che realizza l'autocoscienza, fra scrittura e viaggi che assecondano gli aneliti dello spirito; lo fanno con un ritmo di battuta particolarmente serrato, oltretutto, ed perfino eccessivo, tale che non lascia spazio ad un intercalare magari più realistico, si può supporre allo scopo di creare unione istintiva fra i due, oltretutto molto ben supportati dalla presenza di Valeria Milillo ed Alex Cendron ad arricchire gli intrecci narrativi.
Nella seconda vicenda, si palesa un'attualità in cui, se da un lato si apprezza la capacità di far aprire gli occhi alla società su di una universalità dei sentimenti, dall'amore alla gelosia, che finalmente appaiono uguali per tutti, dall'altro si scade in una troppo frequente loro mercificazione (“la roba troia”). Ma il personaggio principale resta il Tempo, sia in un un parco alla ricerca del sesso anonimo sia sopra quel divano giallo fine anni '50 che segna visivamente l'inizio della modernità: quel lasso di tempo di cinquantasette anni che ha visto trasformarsi il modo di guardare all'omosessualità, da “nemico pernicioso” da contrastare per via psichiatrica con terapia a base di apomorfina per associare il vomito all'attrazione omosessuale, a tema complesso da affrontare con coscienza e conoscenza. E l'accostamento si annida anche nelle speranze covate nel passato (“Una coscienza futura di noi” che dice che andrà tutto bene, un giorno, e che tutto sarà migliore... un giorno ci sarà la comprensione, di certe cose...) e nel pensiero di qualcosa che va oltre il lato sessuale e morboso (“Le altre cose, non di natura sessuale... se ne andranno anche quelle?”). La scelta di fondo sul modo di trattare il testo di Alexi Kaye Campbell, che dal 2008 ha fatto registrare un crescente successo, sembra preferire l'accento sulla puntualità dell'affrontare il tema e le sue varianti psicologiche per diffondere sulla scena una luce di riflessione analitica sulle identità; questo però porta ad una diminuzione (troppo) drastica del lato emozionale di un materiale simile, che infatti raramente viene fatto partecipare concedendosi ad un possibile pathos; il cast va ricordato di sicuro per una grande capacità di scomporsi, ricomporre situazioni e personaggi dalle caratteristiche gestuali e dalle necessità di interpretazioni assai diverse fra loro (su tutti, Maurizio Lombardi), e tutte centrate ed interpretate con precisione, veri artefici di quel tessuto del Tempo sul quale la narrazione disegna l'Epifania.