Prosa
PRIMA DELLA PENSIONE, OVVERO COSPIRATORI

Prima della Pensione: il Nazismo ai tempi della democrazia

Elena Bucci, Marco Sgrosso
Elena Bucci, Marco Sgrosso

Elena Bucci e Marco Sgrosso rileggono uno dei capolavori di Bernhard, puntano a un allestimento minimale, dove il buio è più forte della luce e il vuoto rimbomba angosciante.

Prima della Pensione di Thomas Bernhard debutta a Stoccarda nel 1979, proprio mentre emerge che l’allora presidente del Baden-Württemberg era stato un fedelissimo di Hitler.

La Germania del boom economico ripiombava dunque nel suo passato e la storia dei fratelli Höller, Rudolf ex gerarca delle SS, Vera a lui unita da rapporto incestuoso e Clara condannata alla sedie a rotelle da un bombardamento americano, si alimentava di un fatto di cronaca per assurgere a simbolo di una denazificazione mai perseguita per davvero.

Nostalgia di un passato felice

In una casa santuario, tra specchi polverosi e bottiglie di Principe di Metternich, le due sorelle aspettano il ritorno a casa di Rudolf, presidente del tribunale, per festeggiare con lui il compleanno di Himmler. Come ogni anno il rituale si ripete, la fotografia del capo delle SS troneggia sul mobile e la divisa di Rudolf è pronta per essere indossata.

Elena Bucci e Marco Sgrosso, che firmano il progetto e la regia dello spettacolo, puntano a un allestimento minimale, dove il buio è più forte della luce e il vuoto rimbomba angosciante. Vera e Rudolf sono legati da un fanatismo grottesco e delirante, si autodefiniscono cospiratori, ovvero ultimi superstiti di un’età dell’oro in un mondo dominato dalla corruzione e dal disordine. Perfino l’album di foto, intorno al quale si costruisce l’intero terzo atto, più che contenitore di memorie è una macchina del tempo per tornare a un’epoca felice, il lager, di cui Rudolf è stato a capo, e diventa luogo idilliaco dove godere di passeggiate e bere vino di prima qualità.

“Oh come sono contenta che tu non sia stato ad Auschwitz”, esclamerà Vera poco prima del finale. Clara, immobile sulla sua sedia a rotelle, li osserva mescolando disgusto e impotenza, ma è al tempo stesso un totem prezioso, testimonianza vivente del martirio del popolo tedesco. Clara è vittima delle bombe americane, nella sua scuola morirono novantacinque bambini. “I numeri dell’orrore nessuno vuole ricordarli”, stigmatizza Rudolf nel totale parossismo che lo caratterizza.

La follia è invisibile agli occhi

Lo spettacolo, che rispetta l’originaria ripartizione del testo in tre atti, decolla con difficoltà, rimane inceppato nel secondo atto dove gli ammiccamenti di Sgrosso/Rudolf trasformano il grottesco in patetico, mentre il terzo atto recupera ritmo e mordente, così che il sottile crinale tra follia e fede politica si fa più chiaramente leggibile.

Elena Bucci è una Vera naturalmente squilibrata, una Biancaneve ingenua e fiduciosa che immagina di passeggiare a fianco del suo Rudolf impettito nella divisa da SS, ma sa dirigere nel contempo i contrappunti iracondi di Rudolf e le frecciate velenose di Clara. Per quest’ultima Elisabetta Vergani confeziona un mutismo testardo e sprezzante, una foga trattenuta e dirompente al tempo stesso: è lei che rischia di dover rasare i capelli e indossare la divisa da deportato per compiacere la messa in scena del fratello ed è sempre lei a denunciare l’incesto tra i due fratelli, benché davanti a Rudolf non ne faccia mai parola.

Gli spettatori, a loro volta quasi inconsapevoli voyeurs, entrano tra le mura di una casa come tante per scoprirne segreti inconfessabili e inimmaginabili giochi di ruolo, ed è questa probabilmente la cifra dell’intero allestimento: la follia e il delirio possono appartenere a tutti o, come dice lo stesso Rudolf, “in ognuno di noi si cela un assassino, basta solo risvegliarlo”.

In fondo, nessuno sa cosa sia per davvero l’altro, le cospirazioni per loro natura sono figlie delle tenebre e del segreto.

Visto il 28-01-2020