Lo spettacolo è un processo anomalo in cui il pubblico è testimone, giudice, parte in causa, parte lesa (secondo qualcuno), in ogni caso nella duplice veste di esseri umani e cittadini che ascoltano opinioni discordi, un confronto difficile ma necessario.
Gherardo Colombo ha la toga, è in platea e porta avanti il ruolo della pubblica accusa. Ruggero Cara veste i panni di Cavour ed è sul palco, davanti a un monumento di Garibaldi; sullo sfondo due lapidi coi nomi di caduti. Unico testimone, super partes, l'Italia, una turrita Marta Iagatti avvolta nel tricolore.
Cavour è più a suo agio nel parlare francese, ma viene invitato ad esprimersi in italiano. L'accusa per cui si procede è di avere favorito l'unificazione di un Paese che non possedeva i requisiti politici, etnici, culturali e linguistici per essere unito. La morale va tenuta separata dalla legittimità: i popoli devono essere liberi di autodeterminarsi anche e soprattutto politicamente.
Bisogna partire dalla realtà che all'epoca dei fatti il Piemonte era superato in campo economico e culturale dalle province pontificie e che la spedizione dei Mille configurò un attacco armato, una vera invasione di confini di uno stato legittimo. Che cosa aveva a che fare l'Italia con Torino? Cavour ha consegnato l'Italia al meno italiano dei sette sovrani che regnavano in quel momento. Cavour si difende, contesta i dati e le modalità del comportamento. Insiste sull'istruzione, punto di forza del regno di Sardegna, importante per non farsi incantare dal primo pifferaio magico che passa con un sogno di felicità, sogni che poi diventano ombre.
Pubblico ministero e Cavour (imputato e, al tempo stesso, avvocato di sé stesso) ripercorrono la storia: Ciro Menotti (Modena, 1831), i fratelli Bandiera (da Venezia alla Calabria, 1844), Carlo Pisacane (Ponza e poi Sapri, 1857). Di tutti questi fatti Cavour sarebbe responsabile, secondo l'accusa, di “culpa in vigilando”. Inoltre i patrioti volevano una Italia repubblicana e federalista, mentre Cavour l'ha fatta monarchica e accentrata. Che ne è stato poi dell'accordo di Plombière (Napoleone III, 1858) e dei tre Stati in cui sarebbe stata divisa l'Italia (nord, centro e mezzogiorno). Insiste il pubblico ministero: l'unificazione non fu impresa impropria, immatura? Un azzardo, insomma?
Nel duello verbale si avvertono chiari echi all'oggi e al berlusconismo che fanno ridere il pubblico. L'Italia interviene con siparietti anche musicali e sogni a cavallo degli anni: il film sul Risorgimento lei lo vede con Mazzini sceneggiatore, Garibaldi interprete e Cavour regista.
Ma il PM non demorde: ci fu una femme fatale, la “vulva radiosa”, la contessa di Castiglione. Cavour sostiene che la contessa ebbe un compito patriottico, squisitamente politico; il PM commenta: “Ah, si diceva così anche allora?” E paragona Cavour a Lenone, mentre il Primo Ministro dice di guardare al risultato politico. Il PM: “Si deve giudicare anche la vita amorosa; quando si ricorre a certi metodi, con quale coraggio li si chiama atti politici?” La citazione d'obbligo è Leopardi, quando scrive che in Italia manca una società perchè gli italiani non bisognosi vanno solo a passeggio, agli spettacoli e in chiesa. Il PM accusa Cavour di aver tenuto fuori la Chiesa dal Risorgimento e quindi di avere tolto la base popolare; Cavour cita esempi stranieri a sostegno del suo agire.
Per Cavour la politica oggi la fanno i PM; per il PM è una fortuna che i giudici qualche volta riescano a far applicare la legge.
Lo spettacolo termina con la lettura del discorso di Cavour in Parlamento il 25 marzo 1861, poche settimane prima di morire sfinito dai salassi. Quindi il PM invita ciascuno a trarre la propria sentenza. E questo ci è parso il punto di forza del testo: non cercare soluzioni ma proporre analisi, dibattiti, differenti punti di vista su un argomento attuale.