Prosa
PROCESSO A DIO

Sono numerose e memorabili le…

Sono numerose e memorabili le…
Sono numerose e memorabili le opere dedicate all’Olocausto, la tragedia più sconvolgente e toccante che la storia abbia mai conosciuto. Così come sono tanti e, forse, inutili i tentativi di spiegare le atrocità e le umiliazioni subite dal popolo ebraico durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo oltre sessant’anni, il mondo si domanda ancora il perché di tale orrore e quale senso, se di senso si può parlare, abbia avuto sterminare un’intera generazione di uomini e donne. “Processo a Dio” non da risposte. Non vuole rispondere. E’ il “non-senso” la pedina che ha condotto il gioco e che, paradossalmente, gli ha conferito significato. Il giovane Stefano Massini ha dato vita ad un racconto straordinario e drammaticamente intenso, scritto seguendo uno stile pulito, diretto e pungente. Le emozioni e la rabbia che trasudano da questa storia sono state trasportate brillantemente sul palcoscenico, luogo in cui si rinnova il sodalizio tra il regista Sergio Fantoni e l’attrice Ottavia Piccolo (già insieme ne “Il libertino” di Erich-Emmanuel Schmitt nel 2000). Nel freddo e cupo magazzino del campo di concentramento di Lublino-Maidanek, fresco di liberazione, si svolge un processo tanto surreale quanto atteso. L’imputato è Dio; ad accusarlo, un’attrice di origine ebraica, Elga Firsch. Con l’aiuto del giovane Adek, la donna tiene sotto sequestro un ufficiale delle SS (Francesco Zecca), il quale dovrà rappresentare proprio l’imputato e darle le risposte che cerca. I giudici improvvisati del processo sono due anziani saggi (Silvano Piccardi e Olek Mincer), chiamati a svolgere un compito arduo e sofferto: dare un verdetto. A tentare di difendere la figura di Dio è il Rabbino di Francoforte (Vittorio Viviani) anch’egli rinchiuso, da oltre un anno, nel terribile lager e miracolosamente rimasto in vita. Elga è nervosa, assetata di verità e giustizia. Dai suoi occhi infuocati traspare tutta la sofferenza provata in quei lunghi, interminabili giorni di lavori forzati, fame e disperazione. Sono lontani i momenti di gloria e di felicità, nei quali era apprezzata come attrice e come donna. Elga si sente morta internamente. Il sangue che scorre nelle sue vene è avvelenato dalla rabbia, nella sua testa i ricordi si ergono come terribili fantasmi dai quali sa che non potrà mai fuggire. Dov’era Dio, l’Onnipotente che tutto crea e tutto può distruggere, durante la Shoah? Come ha potuto permettere tali brutalità? Sono ben cinque i capi d’accusa mossi dalla donna: schiavitù, sterminio, tratta di esseri umani, tradimento e disumanità. La Firsch non si limita a puntare il dito con forza e convinzione ma, con immensa determinazione, mostra ai presenti prove dettagliate e pesanti che sembrano mettere con le spalle al muro l’imputato. Ci sono migliaia di schede e registri che descrivono minuziosamente le atrocità subite dagli ebrei; ci sono tracce di esperimenti disumani e di lavori svolti al limite della sopportazione. Il Rabbino tenta faticosamente di trovare giustificazioni: con voce sofferta ma permeata di speranza e fede, difende Dio, descrivendolo come prima vittima dello sterminio ma costantemente vicino agli ultimi. La colpa è, secondo l’anziano ebreo, da attribuire ai nazisti e al loro desiderio di sostituirsi al divino, raggiungendo la perfezione e l’onnipotenza. Il finale è concitato e ricco di pathos emotivo: se davvero Dio è riconosciuto come innocente, l’ufficiale nazista sarà ucciso. Al contrario, se è la volontà del Padre Eterno che ha permesso lo sterminio di milioni di innocenti, il giovane tedesco vivrà. La scenografia e i costumi, curati nei dettagli da Gianfranco Padovani, non ricreano il tipico lager nazista, piuttosto, lasciano intelligentemente alla fantasia dello spettatore la libertà di esprimersi e di vedere, di là delle pareti, il mondo dei deportati, che ruota intorno alla sofferenza ma anche ad una grande dignità. Le musiche di Cesare Picco producono suoni consoni ad una tragedia della contemporaneità e scandiscono, spesso, i tempi del processo. Ottavia Piccolo si dimostra attrice impegnata e di estrema sensibilità. Da anni conduce una ricerca personale proponendo un teatro civile denso di significato e lontano da ogni tipo di retorica. Con intensità e vero tormento, si muove e si dispera sul palco per denunciare le barbarie, senza mai arrendersi né cadere nel banale. E’ visibile, sul suo volto, la passione che la lega al personaggio e alla storia rappresentata. Di forte personalità la prova dimostrata da Viviani, ispirato Rabbino difensore della spiritualità, costretto, a volte, a scegliere la via del silenzio di fronte al “non senso”. Bravi anche gli altri protagonisti, legati da una fluidità e chiarezza di dialogo, ormai rare da trovare nel teatro contemporaneo. Il “Processo a Dio” coinvolge tutti gli uomini, non solo le vittime e i presunti colpevoli dell’Olocausto. Non è nelle nostre possibilità comprenderne i motivi, giungere a risposte universali. E’ questo il messaggio che lo spettacolo intende comunicare al suo pubblico, il quale col fiato sospeso e un pizzico di commozione, regala agli attori minuti di applausi scroscianti. Per non dimenticare e per riflettere in modo diverso dal solito. Modena, Teatro Storchi, 24 febbraio 2008.
Visto il
al Ariosto di Reggio Emilia (RE)