Come approcciare oggi il mito di Prometeo così come ci è pervenuto nella tragedia di Eschilo, l'unica sopravvissuta di una più vasta trilogia? Con quali discorsi moderni intrecciare quel testo per cercare in qualche modo di interrogarlo, come un oracolo, sperando in una risposta chiara, comprensibile, utilizzabile? Non sappiamo se Alberto Di Stasio si sia posto queste domande e con queste intenzioni mentre si avvicinava al testo. Quello che è sicuro, almeno per chi scrive, è la straordinaria freschezza e intelligenza con la quale ci propone una messinscena originale, personale, eppure pertinente al testo e alle sue problematiche.
Una messa in scena che scarnifica sempre di più il testo originale ma non le sue intenzioni con una riscrittura drammaturgica irriverente, spiazzante, splendidamente in tema. Il Prometeo di Di Stasio, da lui stesso interpretato (chi altri poteva, data la lettura che ne fa?) è un personaggio umiliato, rassegnato, decaduto piuttosto che il fiero Titano di Eschilo che si lamenta della punizione che lo affligge (una punizione eterna essendo egli immortale).
Le tre oceanine che lo visitano danzano melliflue, quasi garrule, offrendosi di sostenerlo e consolarlo con una certa oscenità, quella della bellezza che si offre alla divinità decaduta, imprigionata, ma anche corrotta. Vestito di un completo gessato Prometeo si spoglia della giacca, mostrando una camicia stazzonata, e rimane in mutande, i pantaloni calati alle caviglie che lo costringono a piccoli passi mentre le tre oceanine gli ...ancellano intorno. Segno di una destrutturazione dei personaggi, i quali, per farsi riconoscibili all’occhio dello spettatore contemporaneo, si vestono di un’altra antichità, quella del cafè chantant (l’attore Gianni Caruso nei panni di Oceano, che entra in scena andando in playback su un’aria napoletana interpretata da Tito Schipa), della rivista (i movimenti coreografati con cui si muovono le quattro interpreti femminili, allieve di un corso di teatro danza di cui lo spettacolo è, almeno in parte, il risultato) lo spettacolo –performance futurista (una delle oceanine si mette ai piedi il costume argentato della coda di una sirena e suona con un archetto una lunga sega da falegname). Ma più ci si allontana dal contesto originale più il significato dei singoli interventi dei personaggi rimane immutato nella loro intenzione: oceano redarguisce Prometeo, consigliandolo a più miti comportamenti contro il potere assoluto di Zeus; le Oceanine consolano Prometeo convinte che presto egli sarà liberato (dimostrando una certa vaghezza dei personaggi degna di quella che Di Stasio impone loro nella recitazione straniata e nei movimenti fanciulleschi, da Lolite?, coreografati che compiono).
Anche la caduta di Prometeo è trasfigurata prima fisicamente prima fisicamente (come quando declama brani delle Laudi con il corpo pervaso da una sindrome spastica che non lo fa muovere né parlare bene) poi nell’identità del personaggio che slitta lentamente verso la figura cristologica i cui versi in aramaico Elì, Elì, lamà sabachthàni suggellano la fine di Prometeo (e della messinscena) mentre le oceanine danzano sulle note dell'internazionale socialista ed Ermes (interpretato da una donna) porta la sua ineluttabile minaccia inascoltata fino alle estreme conseguenze.
Insomma armamentario e immaginario collettivo altri, appartenenti a quella cultura popolare di una volta (ben più colta e complessa di quella contemporanea), i cui resti decaduti si offrono come uno splendido correlativo oggettivo alla decadenza di Prometeo la cui caduta finale nell’abisso senza fondo è anche quella della nostra civiltà.
Uno spettacolo difficile da raccontare perché non si può restituire con le parole l’impatto emotivo (e intellettuale) che questa messinscena induce in chi la guarda. Una riflessione sulle umane sorti aggiornando il mito di Prometeo al nostro presente.
Alberto Di Stasio non poteva farlo in maniera più efficace.
Prosa
PROMETEO INCATENATO
Prometeo tra Cristo e l'Internazionale socialista
Visto il
13-01-2011
al
Vascello
di Roma
(RM)