Sara Kane è forse più nota per lo scandalo dei suoi testi teatrali, nei quali si accenna al cannibalismo, allo stupro, e alla sodomia, oltre che per il suicidio con il quale ha terminato la sua vita all'età di 29 anni, nel 1999, che per l'importanza che riveste nella scena teatrale contemporanea inglese. Una importanza non solo nel contenuto del suo teatro, nel quale parla di quello che la società cerca di nascondere, trasformandolo in immondizia e che per Kane sono elementi da analizzare, tenere presenti, superare, non nascondere.
L'importanza di Kane è anche nella scrittura drammaturgica di un teatro per sua stessa definizione di immagine più che di parola. "Psicosi dele 4.48" ultimo testo scritto, messo in scena solo dopo la sua morte, privo di didascalie e di indicazioni sceniche, imbastisce in un coro di voci diverse il monologo interiore della sofferenza di chi vive con estrema consapevolezza il male di esistere. Non il testo di una suicida, come si è stati tentati di ridurlo, ma un'analisi dolorosamente lucida sulla società contemporanea nella quale viviamo tutti come monadi estremamente bisognose di essere amate. Un testo che ha sulla pagina una sua autonomia grafica, nell'impaginazione, nella scansione delle voci monologanti, che lascia spazio a chi lo mette in scena la possibilità di una regia che ne illumini la poliedricità e la polivalenza.
Il lavoro scenico di Walter Pagliaro ha pescato nell'immaginario collettivo immediato e connota il monologo con un letto di ospedale, bianco, con tanto di cartella clinica, e uno specchio sopra il letto posto a 45 gradi in modo da permettere al pubblico di avere una doppia prospettiva dell'attrice che interagirà con quest'unico oggetto di scena.
L'approccio recitativo di Michaela Esdra è di notevole sensibilità nell'individuare un ritmo emotivo interno al testo, che precede e travalica quello sintattico-grammaticale, spezzando la frase secondo ritmi <i>altri</i>, di notevole efficacia e difficoltà. Ma nonostante una bravura e uno sforzo notevoli il risultato finale è claustrofobico. Le varie voci che compongono il monologo, i diversi livelli di consapevolezza della protagonista della pièce, talmente evidenti nella loro poliedrica personalità che nella prima messa in scena al Royal Court Theatre il monologo è interpretato da più attori, sono interpretati da Esdra tutti allo stesso modo dando l'impressione più di una donna che parla a se stessa che di un a persona abitata da molteplici esistenze, diversi punti di vista. Il monologo così interpretato fa implodere tutti i livelli narrativi in un unico magma incandescente nel quale lo spettatore è chiamato a districarsi da solo. E in questo lavoro dell'attrice e sull'attrice del tutto esornativi risultano i pochi elementi di scena, il letto e lo specchio (sicuro omaggio alla prima londinese ne quale ce n'era uno molto simile) che non contribuiscono a evidenziare i diversi punti di vista corrispondenti alle varie voci recitanti di cui il monologo è disseminato ma costituiscono piuttosto un elemento estraneo, che distrae dalla performance incredibilmente energica di Micaela Esdra.
Uno spettacolo sofferto e non tenero dal quale lo spettatore emerge emotivamente provato ma con l'impressione di aver assistito a una di quelle lezioni di anatomia di fine ottocento dove si portava a esempio degli studenti di medicina una persona del popolo deforme nell'aspetto o nella mente, piuttosto che la cruda rappresentazione di una condizione esistenziale che nelle intenzioni di Kane ci accomuna tutti.