Prosa
DIARIO PERPLESSO DI UN INCERTO

Pugni in bianco e nero

Pugni in bianco e nero

Durante lo spettacolo di Antonello Cossia, ed essendo a conoscenza di un particolare della vita del padre, ho atteso a lungo, ma vanamente, il momento in cui venisse fuori quell'episodio immaginando che su di esso, anzi, fosse basato l'intero concetto che l'attore-autore intendeva narrare; il fatto che sia rimasto infine inesaudito, ha aumentato ancor più la considerazione per l'intera operazione; sarà il caso di spiegarlo arrivandoci per gradi.
Il padre di Antonello è Agostino "Agatino" Cossia, primo di 7 figli di un ex carabiniere, campione italiano di boxe, categoria dei pesi piuma, nel 1955 e nel 1956, primo pugile campano a partecipare ad una Olimpiade, quella di Melbourne del '56.

Al primo match, però, incontra un russo imbattibile, Vladimir Safronov, che infatti diventa il campione dei pesi piuma. Cossia perde solo ai punti, ed anche pochi, mentre Safranov vince per K.O. tutti gli altri incontri.
Eppure, per un errore di stampa del giornale australiano che descrisse l'incontro, il suo nome non fu riportato nelle cronache. Ecco, questo mi aspettavo fosse uno degli episodi più rilevanti, quello del mancato riconoscimento di una impresa come questa, ed invece Agatino non diede mai peso a quello che per lui fu solo un banale accadimento, e questo è un ulteriore insegnamento da parte di un uomo che non si è mai soffermato a raccontare i suoi successi, ma che ha rappresentato alla perfezione lo spirito del suo tempo.
Questo, infatti, è il concetto di questo lavoro di Antonello Cossia: con un teatro di narrazione preciso e concentrato, ha portato in scena non soltanto una storia personale, quanto anche e forse soprattutto la Storia, quella di un dopoguerra in cui gli americani, sbarcati al porto, trovarono una città ridotta alla fame da una guerra che non colpiva soltanto con le bombe, e che quindi non era ancora finita, e di anni ed anni in cui essere poveri ("come un gatto") era la normalità assoluta, e storie come questa sottolineano che gli eroi non erano quelli che avevano i titoli sui giornali, ma quelli civili, che ricostruivano ognuno un pezzo di normalità, riallacciavano un filo elettrico o rinsaldavano un binario ("è quando la guerra finisce, che vengono fuori gli eroi").

C'è grande equilibrio, e nessuna enfasi o accondiscendenza, nel testo, e c'è la capacità di far vedere persone che somigliano terribilmente agli eroi neorealisti di Vittorio De Sica, e di presentarcele perfino a colori, quando le immagini della memoria sono solo in bianco e nero.

Belle le suggestioni di costumi ed elementi d'epoca, così come quel "Aprite la finestra" di Sandra Raimondi ascoltato, a ricordare che quell'anno proprio lei vinse Sanremo, o il discorso inutilmente enfatico dell'insediamento di Giovanni Gronchi, ripetuto per ricordare quante e quali parole viaggiassero su rotte così lontane dalla realtà che vivevano in quel momento gli italiani.

E gli italiani come Agatino, quelli orgogliosi e silenziosi che ricostruivano il Paese con i mattoni in mano, quelli che si spezzavano ma non si piegavano, erano quelli su cui contare perchè erano i più convinti di voler trasformare la propria condizione, che magari guardavano avanti anche perchè dietro non trovavano molto da guardare, e che però con tanti piccoli miracoli qualche risultato lo ottenevano: oltre che essere arrivato alla fine dell'incontro a testa alta, guardando in faccia Safronov come nessun altro era riuscito a fare, Agatino ancora oggi ricorda e rimarca: "E' stato spettacolare, ma se devo essere sincero quell’incontro mi ha fatto piangere tre o quattro giorni. Appena ci pensavo piangevo. Io sono convinto che se a quasto pugile lo avessi incontrato due o tre incontri dopo, lo avrei battuto".

Visto il 18-03-2011