Dino Verga ci regala una nuova coreografia che affronta altre direzioni di ricerca. Questa volta nessuno spettacolo modulare, assemblato su cellule coreografiche diversamente componibili, come per il precedente Backline, né allestimenti multimediali come per lo splendido Fiori malati.
Dino riparte da un corpo di ballo ridotto rispetto i lavori precedenti (soprattutto nella parte maschile, quella più giovane e forse per questo più debole) lasciando Luca Russo come unico danzatore (e la sua bravura, sempre sorprendentemente rinnovata, di coreografia in coreografia, non fa notare l'assenza di altri danzatori) circondandosi invece delle sue danzatrici di sempre cui affida una coreografia ostica, difficile, faticosa per chi la esegue quanto lieve, elegante ed emozionante per chi vi assiste.
Alcune pedane a due gradini, colorate secondo diverse gradazioni di viola, sono disseminate sul palco, all'inizio oscurate da un uso sapiente delle luci che mostra solo alcuni spazi della scena, per il resto vuota. Le quattro danzatrici e il danzatore vestono tutti lo stesso costume, una calzamaglia, anch'essa di diverse gradazioni del violetto, sulla quale indossano una sorta di gonnellino plissettato che un po' come quello dei dervisci si apre quando le ballerine piroettano.
Come luogo primario da cui nasce il movimento non c'è già il palco ma queste pedane a due gradini, sulle quali le danzatrici si siedono, si muovono, costruendo dei movimenti che solo la loro bravura fa sembrare facili, fluidi, naturali, mentre sono al contrario difficili e sul filo dell'acrobazia. Prima solo una poi tre pedane vengono popolate delle danzatrici e dal danzatore come zone franche della danza, come ninfee in un lago altrimenti pericoloso. Da queste postazioni si sviluppano una serie di movimenti di gruppo dai quali si distaccano passi a due (o a tre), molti dei quali si basano su un sapiente uso della gravità, per cui un gesto o un movimento serve come base di partenza per una serie contigua di pose impossibili da raggiungere da sole. Caratteristica che viene ripresa e ampliata nelle prese dinamicissime e nelle quali non è sempre l'unico danzatore a fare da porteur, ruolo intercambiabile tra danzatore e danzatrice, tra due (o tre) danzatrici, senza soluzione di continuità.
Il movimento coreografico, come un riverbero atmosferico, si sviluppa per addensamenti (quando alcune danzatrici si arrestano improvvisamente in pose plastiche, in piedi o sedute sempre sulle pedane, mentre le altre sono impiegante in passi a due o assoli) e improvvise esplosioni coreutiche nella quali Dino Verga pone massima cura sia nei rapporti tra singoli ballerini che tra singoli e gruppi di figure che si sviluppano nell'evolversi della coreografia. Stavolta però come elemento oppositorio si staglia sempre la figura di un singolo (una singola) che fa da contrappunto, occupando l'ideale vertice di un triangolo che ricorda visibilmente quello della prospettiva piana fino al tripudio di una sorta di crinolina calata dall'alto, indossata da una delle ballerine come costume d'altri tempi, che, a inizio spettacolo, era illuminata proiettando ombre sui muri di quinta...
Una coreografia complessa, ricca di elementi e di figure (compreso un momento ludico nel quale, cambiando sensibilmente la musica, le danzatrici si improvvisano istruttrici/partecipanti un corso di step, la ginnastica con la pedana che va di moda in tante palestre con tanto di istruzioni date e gridolini di entusiasmo).
Le pedane infatti, uscite dal buio, diventano prima una proiezione del corpo delle ballerine (che vi restano assiepate, non allontanandovisi mai completante, e poi veri e propri elementi scenici che permettono costruzioni modulari, da una passerella a una sorta di podio in cui Dino fa porre le sue ...creature danzanti, dando loro diverse pose, modellandole proprio come creta. Uno dei tanti elementi che colpisce in questa coreografia è proprio la parte statica che diventa parte essenziale del movimento complessivo della pièce: le ballerine e il ballerino sono talmente bravi che danzano anche quando in realtà stanno fermi.
Lo spettatore si trova immerso in un mare coreografico del quale può apprezzare di volta in volta il colpo d'occhio delle risonanze e analogie tra gruppi danzanti diversi che si muovono ora all'unisono e ora dinamicamente sfasati (ma mai a caso o per errore) sempre alla ricerca di una costruzione coreografica più vasta e globale, oppure soffermarsi sul singolo passo a due, sull'unico assolo del momento, rapito da un'estatica contemplazione del movimento puro, complice una partitura musicale che è sapientemente scelta tra musica contemporanea con l'irruzione di musica elettronica e parti parlate della nostra contemporaneità (ci sono anche le chiamate al gate di un aeroporto) e brani classici coevi a Monet. Ma va sottolineato come Dino Verga non si limiti alla giustapposizione dei vari brani scelti ma li assembli sapientemente (e di persona) in una partitura nuova che dovrebbe firmare come sua per il risultato che raggiunge, mantenendone al contempo l'individualità originaria e dandogliene una nuova nel missaggio. Una musica che sembra scaturire dai movimenti delle danzatrici (e del danzatore) che si muovono anticipandola, come decidessero loro le sue cadenze e non il contrario come di solito succede nella danza.
Una coreografia che declina incessantemente, secondo diverse possibilità, l'ineffabilità dell'arte, quella della danza certo, ma anche quella della pittura che Monet, cui lo spettacolo è ispirato, lamentava quell'impossibilità nel cogliere, quello scarto, umanissimo, tra visione e restituzione artistica di quanto si è visto. E piuttosto che rappresentare l'ineffabile, dichiarando così in partenza l'impossibilità a raggiungerlo, la coreografia di Dino Verga ce ne mostra mille varianti attraverso una danza che parla direttamente alla parte pre-logica dello spettatore collocandosi in quella zona intermedia tra razionalità ed emozione. Per cui guardando la coreografia, guardandone i singoli passi, sappiamo che sono necessari (solo quelli e non altri) senza saperne dire il perché. E l'ineffabilità del mondo all'arte è quella di noi spettatori di fronte una coreografia alla quale assistiamo e nella quale vorremmo immergerci per sempre riuscendo solo a ripiangerne il momento appena passato.
Dino Verga ancora una volta riesce a parlare direttamente all'inconscio dello spettatore, alla sua emotività, conducendolo a delle intuizioni della mente e a delle emozioni che scaturiscono direttamente dai corpi e dai movimenti dei corpi delle danzatrici e del danzatore che incarnano delle coreografie uniche, inconfondibili ed esemplari, prive di affettazioni, senza mai irretire lo spettatore al quale Verga non concede tregua proprio come non la concede ai ballerini che la eseguono.
Un'esperienza da fare e da ripetere. Avete l'occasione fino a domenica 29. Non fatevela scappare.
Visto il
18-11-2009
al
Furio Camillo
di Roma
(RM)