Non sappiamo se Renzo Martinelli l'abbia mai fatto per mestiere, ma nel suo ultimo lavoro Lotta di negro e cani, oltre a presentarsi nei consueti panni di regista e scenografo, si è anche proposto come specialista nelle materie edili e negli effetti speciali. Con una risolutezza rivoluzionaria, ha rimosso il palco, spostato la platea in cima a una struttura di ponteggi appositamente innalzata lungo il perimetro della sala e, infine, sorpreso il pubblico con un ingegnoso spettacolo pirotecnico. Non c'è dubbio: il Teatro i è un luogo dove la realtà e l'immaginario si incontrano e l'emozione del verbo viene vissuta non solo in senso traslato, ma anche in quello tangibile.
Siamo in un cantiere in mezzo all'Africa. Cal (Rosario Lisma), un giovane ingegnere, poco tempo prima, per un futile motivo, ha ucciso un operaio di colore. Il cadavere non lo lascia in pace ed egli si affanna per nasconderlo. Alla fine, lo getta in una fogna dalla quale non lo si può più recuperare. Presto se ne pentirà amaramente, perché se per lui il corpo rappresenta soltanto un elemento di disturbo, non lo è per Albouri (Alfie Nze), che si introduce clandestinamente nel territorio recintato per riportare nel villaggio le spoglie del fratello morto. Nel suo atteggiamento non ci sono segni di rabbia o di ira. E' fermamente convinto di aver diritto di riprendere quel che resta del suo parente e questa sua tenacia sconvolge il sessantenne capocantiere Horn (Alberto Astorri). Il fatto di trovarsi messo con le spalle contro il muro da uno sconosciuto per colpa del crimine di un suo subordinato lo imbarazza e lo infastidisce. Da un lato, il senso di complicità tra bianchi e un certo sentimento paterno lo inducono a difendere Cal, ma dall'altro, il suo unico desiderio sarrebbe di porre fine a questa fastidiosa vicenda. In un modo o nell'altro. La sua mente è troppo occupata dagli affari personali: sta per sposare Léone (Valentina Picello), una giovane donna che poco tempo prima ha conosciuto a Parigi e, che ha lasciato tutto per raggiungerlo in Africa. La morte alleggia nell'aria, pesante come l'afa africana. Quella è stata il punto di partenza e con essa finirà tutto.
Al contrario di quanto possa apparire, Lotta di negro e cani non è uno spettacolo su razzismo, colonialismo o emigrazione, ma sulla diversità delle lingue che un negro e un bianco parlano. Cal non cerca nemmeno di capire i suoi operai, che disprezza e chiama "bubu". Horn, trovandosi a sorpresa nei panni di un mediatore, ci prova, ma poi ci ripensa: «E' difficile comprendersi. Penso che, malgrado ogni nostro sforzo, la nostra coesistenza sarà sempre difficile». Persino Léone, convinta di avere più in comune con i neri che con i bianchi, alla fine si troverà incompresa e pubblicamente disprezzata da un uomo di colore.
Non si tratta in realtà di una barriera linguistica vera e propria quanto mentale. Il fatto di parlare lingue diverse per Koltés è soltanto uno dei presupposti per poter dare vita a un dramma. Altrimenti la pièce sarebbe finita subito, non appena il capocantiere avesse rivelato al suo ospite dove si trovava il corpo.
Koltés ha chiamato Lotta di negro e cani il suo primo esperimento di "linguaggio puro", quello che Henry Miller (che non a caso viene menzionato nel corso della rappresentazione) chiamava "qualcosa che vive oltre le parole ". Riprendendo la tradizione dell'antico Agone, il drammaturgo la revisiona e ne crea una variante nuova. I suoi dialoghi perdono la loro forma classica, quella del duello verbale, e si trasformano in un "assemblaggio" di monologhi. I personaggi non si confrontano più uno con l'altro, ma cercano un interlocutore esterno, il pubblico, al quale espongono gli argomenti in propria difesa. Il discorso sembra roteare intorno a un centro senza mai raggiungerlo, assomigliando a un incontro di pugilato durante il quale al posto dei colpi dei guantoni si assiste a uno scambio di attacchi verbali.
Detto ciò, diventa molto evidente l'idea scenografica di Martinelli che vuole essere vista non come un semplice tributo al realismo industriale, ma come il desiderio di dare una forma fisica all'intricato concetto del "Teatro di parola" di Koltés, spesso di difficile comprensione. Tuttavia, a differenza degli aspetti formali che sono stati risolti dal regista alla perfezione, non si può dire lo stesso per quel che riguarda quelli interpretativi. Gli attori o sono stati troppo presi dalle questioni "materiali" (l'allestimento dei ponteggi, per intenderci) e non hanno avuto abbastanza tempo per le prove o semplicemente non sono riusciti a penetrare un linguaggio così complesso come quello di Koltés per caricarlo della negatività e dell'energia che questi richiede. Nonostante il buon ritmo e l'evidente sforzo di creare un atmosfera di tensione, lo spettacolo non decolla e fatica a raggiungere il pubblico il quale, trovandosi di fronte ai monologhi troppo lunghi e a un intreccio poco avvincente, presto si annoia.
Ci vuole molto impegno per intravvedere nella tremante, ingobbita Léone di Picello quell'intraprendente parigina che, attratta dalla prospettiva di sposare un uomo ricco e di visitare l'Africa, molla tutto per raggiungerlo. E' assai difficile percepire in lei quella soffocante e spossante nota di erotismo di cui sono permeate le migliori opere di Koltés. Così come è poco credibile la viscerale perversità di Cal. Più che una persona intenta a escogitare una via di fuga, con la sua mano sinistra costantemente posata al livello dei genitali, sembra il prototipo freudiano di un individuo in cerca di soddisfazione per i propri bisogni sessuali. Anche l'interpretazione di Albouri da parte di Alfie Nze, un attore di origini africane, la cui presenza conferisce allo spettacolo un vero tocco "esotico", risulta alquanto lontana dall'estenuante atteggiamento con il quale il personaggio assilla Horn e infine lo fa cedere.
Pier Paolo Pasolini scriveva:«... Il teatro di Parola non ha alcun interesse spettacolare, mondano, ecc.; il suo unico interesse è l'interesse culturale, comune all'autore, agli attori e agli spettatori; che dunque, quando si radunano compiono un "rito culturale"». Per questo, come per tutti i riti, la maggior difficoltà nel rappresentare testi come Lotta…, considerati in un certo senso elitari, è proprio il saper raccontare andando oltre al linguaggio. Purtroppo, non sempre l'esaustività della forma compensa la mancata comprensione del contenuto. A quanto pare, per i creatori dello spettacolo Koltés - la cui ombra ha di sfuggita attraversato le impalcature - rimane un mistero ancora non del tutto scoperto.
Visto il
20-02-2012
al
Tordinona - Sala Pirandello
di Roma
(RM)