Grande successo per interpreti e allestimento, determinanti per la riuscita di uno spettacolo da non perdere. Prima opera lirica del compositore milanese Luca Francesconi
A Milano è andata in scena in prima assoluta Quartett, prima opera lirica del compositore milanese Luca Francesconi commissionata dalla Scala e tratta dall’omonimo dramma teatrale di Heiner Müller.
La pièce del drammaturgo tedesco reinterpreta “Les liasons dangereuses” di Choderlos de Laclos, riducendo il romanzo a una partita a due dove si confrontano in uno scontro ad alta tensione la Marchesa di Merteuil e il Visconte di Valmont, in un turbine di scambi di ruolo e identità (nella logica di un quartetto virtuale i due s’identificano anche in Madame de Tourvel e Cécile de Volanges) che traduce la geometria del romanzo epistolare ed esalta l’ambiguità dei due libertini, più cinici e perversi che mai, ridotti a maschere intercambiabili di un egoismo assoluto.
Il libretto dello stesso Francesconi, a sorpresa in inglese per assurgere a una maggiore oggettività propria della lingua franca, conserva la potente bellezza del testo di Müller, anche se in teatro il gioco verbale esasperato rischia di occultare la vis drammatica connaturata nella situazione. L’opera e la sua realizzazione (inscindibile per la sua corretta fruizione) sono improntate a una logica di opposizione duale che vede due protagonisti confrontarsi in un microcosmo (IN) chiuso e asfittico che si oppone a un macrocosmo di sfondo (OUT) atemporale e profondo.
Per marcare l’opposizione sul piano musicale, in teatro sono presenti due orchestre: una “piccola”, in buca, che analizza nei dettagli l’azione scenica, e una “grande”, di potenza sinfonica,disposta in una sala prove del teatro, che giunge al pubblico tramite un sistema di amplificazione che evoca il mondo esterno ed infinito. La vicenda è divisa in scene (secondo la pratica operistica convenzionale) inframmezzate da una zona “dream” di collegamento in cui i personaggi danno libero sfogo alle loro ossessioni.
Lo spettacolo curato dalla Fura dels Baus (regia di Alex Ollé, scene di Alfons Flores e video di Franc Aleu) traduce con grande immediatezza l’opposizione dei vari livelli drammaturgici e ha il merito di dare forza “teatrale” all’opera di Francesconi. La scena è costituita da un cubo sospeso nel vuoto: l’IN, la cellula dove agiscono i protagonisti, l’OUTSIDE, lo spazio esterno dove vengono proiettati le loro ossessioni ed infine l’OUT, ovvero le pressioni di uno spazio esterno, naturale ed infinito che tende alla disgregazione della cella–prigione e che si oppone all’egotismo della coppia. Un video inquadra con zoomate progressive la finestra illuminata di un palazzo settecentesco in cui noi, come voyeur, andiamo a spiare quello che si svolge al suo interno: in un salotto borghese una donna sofisticata, fasciata in un vestito rosso, coinvolge il suo ex amante in un duello verbale serrato in cui vengono evocate seduzioni passate, presenti e future.
Il gioco ha fine quando la Marchesa, avendo compreso che Valmont ha infranto i patti e si è innamorato di Madame de Tourvel (di cui nel frattempo ha assunto l’identità), lo avvelena con un bicchiere di vino rosso. Dopodiché non le resterà che distruggere la cella scardinandone le pareti e rovesciando i libri per terra.
L’opera è una corsa verso la catastrofe, o catarsi a seconda del punto di vista, ed i video risultano efficaci per amplificare una realtà psichica distorta destinata al collasso. Nelle proiezioni immaginifiche (dove riconosciamo il genio della Fura) vediamo i volti dei cinici protagonisti progressivamente deformati dall’inquietudine, gocce gigantesche che contengono le immagini evanescenti delle loro fantasie in un gioco di specchi e riflessi fra immagine proiettata e azione agita che crea vertigine. Nei video scorgiamo anche il mondo esterno oltre la cella, fotogrammi sfuocati in bianco e nero di una folla non identificata, nuvole in movimento, il progressivo sfaldarsi della crosta terrestre, una pioggia di pietre: la forza della natura (e della società ) destinata ad annientare la sterile vanità della coppia.
Anche le luci di Marco Filibeck risultano pertinenti: d’impatto la cellula tinta di rosso che emerge dal nero per indagare il rapporto di crudeltà psichica fra i protagonisti o che si staglia su di un bianco di ghiaccio, fino all’azzurro finale che indica il ricongiungersi a un tutto naturale e primigenio.
Dal punto di vista musicale l’opera, nonostante le commistioni con altri generi musicali (come il jazz e il folk) e l’uso dell’elaborazione elettronica, è fortemente saldata alla tradizione della musica colta occidentale di cui, diversamente dall’avanguardia, conserva la forte vocazione narrativa.
Anche nel canto ritroviamo le forme classiche dell’aria, del duetto, del declamato, ma rielaborate in modo “moderno” ed il virtuosismo vocale si presta ad esplorare le potenzialità ritmiche per finalità drammaturgiche.
Allison Cook è una Marchesa di Merteuil perfetta, intelligente e cinica, dalla bellezza sofisticata e androgina, protagonista assoluta per il carisma scenico ed il pieno controllo dei mezzi vocali che le consente di reggere i bruschi scarti nell’acuto e di cogliere tutta la varietà espressiva e dinamica del ruolo. Efficace anche Robin Adams, Visconte cinico e annoiato, la cui voce baritonale si screzia d’inedita morbidezza e malinconia quando recita il ruolo della vittima innamorata.
Ottima l’esecuzione musicale per la sintonia con cui le due orchestre, diversamente caratterizzate, interagiscono e si amalgamano: l’orchestra in buca segue le indicazioni precise di Susanna Mälkki con risultati intimi e cameristici, la seconda orchestra fuori scena, diretta da Jean–Michael Lavoie, suona avvolgente e maestosa e nel grande respiro sinfonico s’inseriscono senza cesure le rielaborazioni elettroniche e gli interventi del coro, preparato da Bruno Casoni.
Grande successo per interpreti e allestimento, determinanti per la riuscita di uno spettacolo da non perdere.