Che i moderni call center rappresentino nella modernità quanto di più prossimo al modello dell'alienazione del lavoratore di Karl Marx si possa trovare, è un dato che ha trasformato questo in uno dei lavori iconici del nostro tempo, con la sua epica della maratona disturbante dominata dal tecnorealismo: che tutto questo potesse essere trasformato in qualcosa di delizioso non era affatto scontato, ma è quanto invece è riuscita a fare Giulia Lombezzi, autrice ed interprete di Quater - Diario di un’ape operaia (già vincitore del premio di drammaturgia “Per Voce Sola” 2014), un lavoro che parte anzitutto da una scrittura intelligente, sensibile e creativa, e che viene presentato con una coinvolgente reificazione del personaggio, il moderno ed irregimentato operaio/candidato.
In uno spazio come la Sala Teatro Ichos, in cui é facile scoprire gioielli altrimenti difficili da vedere, Giulia fa apparire anzitutto il Candidato, essere mitologico che racchiude tutte le doti del perfetto succube, trasforma la rassegnazione in ardimento e quasi in una trance agonistica con cui ossessivamente si manifesta prono e pronto a tutto, pur di vedere realizzarsi il grande Miraggio, quello che l'avrebbe fatto sentire "parte attiva, produttiva, necessaria, di questa umanità".
Lei è il candidato numero 214, e riesce ad entrare in un mondo in cui trova ventitré colleghi dediti alla produzione di "dolcissimo miele statistico" per conto di un operatore telefonico che dissimula le sue intenzioni dell'accaparramento dei clienti con approcci di varia attrattività (un tema che ormai suonerà familiare a chiunque), e la sua vita di piccolo ingranaggio comincia ad assorbire l'ossigeno delle nuove regole dell'alveare ("è il momento di dimostrare a me stessa che sono una brava ape"), con un percorso di apprendimento che parte dalle lezioni del Capo Ape (una delle scene più riuscite dello spettacolo) e si dipana negli step attraverso i quali arriverà anche a fare una alquanto rapida carriera interna, dopo aver mantenuto la media imposta delle venti interviste concluse all'ora, e finanche avendo superato la disavventura estrema di dover andare in bagno, a causa della sua "deludente dipendenza dal corpo materiale" che la costringe a calcolare il tempo da (non) perdere, rischiando per un contrattempo di trasformarsi d'improvviso in un "elemento sostituibile", ma rimediando spargendo il suo stesso sangue...
Come nei migliori casi in cui la realtà non teme alcun confronto con l’immaginazione, le telefonate/sceneggiate che si susseguono hanno il pregio di sembrare surreali, mentre di surreale hanno invece solo la circostanza di essere assolutamente realistiche, anzi no, vere; ed in questi come in altri momenti, ogni passaggio viene accompagnato da una gestualità sempre precisa e coerente, nonostante l'estrema concitazione che spesso richiede la costruzione di quella congerie di eccessi che sembra una macchina lanciata ad alta velocità, pronta a scontrarsi con qualcosa di inatteso.
E se la somiglianza tra le condizioni vissute nei moderni call center sono assai e giustamente simili alla descrizione classica della schiavitù salariata nel 19° secolo, qui viene aggiunto anche un elemento psicologico ulteriore: dopo il nuovo incarico, l’ape raggiunge "l'empireo del terzo turno", e si sente non più un tassello, ma IL tassello, acquistando perciò sempre più la sua ragion d'esserci solo ed in quanto si sente dentro al mosaico, ingurgitata ed ora anche ingurgitante, mentre i colleghi continuano a ronzare intorno, alternandosi i quadri con gli accompagnamenti musicali di Filippo Pezzini che sottolineano momenti fra loro assai diversi con tre brani come una cover di Gimme some lovin', Bonzo goes to Bitburg dei Ramones e Into white di Cat Stevens.
L'accostamento con l'ape Maia, memoria lieve dei nostri anni '80 qui evidenziata con i costumi ma anche col piacevole dettaglio di un punto giallo degli orecchini, è centrata, ed anzi poteva essere seguita ancora più a lungo, in un finale in cui si affaccia una consapevolezza della disumanizzazione che ha il simbolo e la voce di un vecchio ascoltato per caso, fra troppe storie ormai sovrappostesi, il quale durante i quindici minuti obbligatori di intervista amplifica il senso di estraniamento che si avverte quando "nel silenzio, fra uno scatto e l'altro", sente la verità, quella di essere sospesi tutti, dentro e fuori dall'alveare, in una sorta di coma che avvolge quella costruzione di una vita così troppo simile alle costruzioni con i cubi colorati, e nel quale finalmente avere l’occasione di adoperarsi per guardare, da un possibile punto di vista esterno, alla rabbia ed a quel primo senso di vera comunione.