Laura Prete è una di quelle che da fastidio alle donne, le altre: bellina e appariscente, con una vocina squittente, leggera e un po’ naif, vede tutto rosa e pare non capire neanche la portata, i doppi sensi, delle sue stesse frasi. Una creatura anche tenera, volendo, apparentemente innocua perché apparentemente stupidina. Sarà quindi solo il poco sale in zucca a giustificare il gesto eclatante e assolutamente inatteso, quello di tirare fuori dalla borsetta una pistola e sparare al conduttore televisivo che la sta intervistando? Le altre due versioni dalla storia sembrano suggerire che no, non può essere questa la risposta. Il racconto è difatti poi presentato, con ben altri toni, voci e dettagli, da altre due Laura: quella dura e ferita - finita in un gioco più grande di lei, che accetta di subire consapevolmente violenze e angherie varie pur di arrivare alla meta - e quella cinica, calcolatrice, diabolica, che sembra avere un ruolo decisivo in eventi e circostanze ambigue, pur di non fare ‘game over’ e continuare, implacabilmente, a macinare livelli e vincere, come in un videogioco senza fine.
Quale Laura ha quindi premuto il grilletto? Perché l’ha fatto? Come si può arrivare a tanto?
Cinzia Mammoliti, criminologa, ha provato a sbrogliare i bandoli della matassa, pur considerando che la complessità della mente umana è tale che non è possibile fare sbrigative generalizzazioni.
Partendo dai temi affrontati con lo spettacolo, una delle prime considerazioni ha riguardato la ‘frammentarietà’ dell’essere umano: in ciascuno di noi convivono più parti e, anche se fa paura dirlo, siamo tutti potenziali criminali (così come ladri, debitori, traditori, … ) ma molto dipende da quale di queste parti scegliamo di fare emergere, nonostante la cultura, l’ambiente, i dolori e le esperienze vissute. Per non parlare poi della circolarità della violenza. Laura è vittima o carnefice? Forse non saremo tutti d’accordo, ma come dimostrano anche molti casi presi dall’attualità più recente, non di rado si innesca un meccanismo perverso che vede le vittime diventare poi carnefici e i carnefici generare altre vittime. Un circolo vizioso che si autoalimenta, dunque, rafforzato anche dalla tendenza sempre diffusa di oggettualizzare tutto, strumentalizzando e piegando a ideali, spesso discutibili se non addirittura malati e privi di ogni fondamento logico, i valori che dovrebbero guidare le nostre vite. Di chi è la colpa? A costo di sembrare retorici e ripetitivi, è innegabile la responsabilità dei media, rei di diffondere stereotipi di bellezza - di “esistenza” verrebbe da dire - insostenibili, basati su tentativi neanche troppo subdoli di mercificazione, anche del corpo, delle donne prima di tutto. Ma i media sono anche strumenti, spesso usati male: il loro utilizzo distorto contribuisce allo sviluppo di modelli in cui ogni possibilità di scelta pare neutralizzata, in cui i disvalori diffusi e i condizionamenti esterni dell’ambiente sono talmente potenti da mettere individui fragili nelle condizioni di fare delle ‘scelte dovute’: rincorrere la bellezza e il successo a tutti i costi, indietreggiare e livellarsi (spesso al ribasso) per fare in modo che altri, immeritatamente, brillino e non rubare loro la scena, accettare di buon grado anche di amare i propri carnefici (compresi quelli che agiscono a livello psicologico), vivendo situazioni di acquiescenza che farebbero accapponare la pelle alle femministe più dure e pure. Non è però un problema di maschi e femmine, con netta distinzione tra uomini cattivi e donne buone e innocenti: quante volte assistiamo a episodi imbarazzanti, in cui esponenti del genere femminile ricalcano, senza neanche troppa vergogna, stantii modelli di comportamento maschili, a lavoro ma non solo, per marcare il territorio e rivendicare il ruolo di capo?
Il problema, uscendo dai facili teatrini delle nette contrapposizioni tra sessi o categorie sociali, sta nell’interiorizzazione di stereotipi e luoghi comuni, tipici di culture maschiliste, presenti ancora oggi nel mondo occidentale, anche se in modo camuffato. Interiorizzazione che è più facile in coloro che sono alla costante ricerca di amore, di conferme o di riconoscimenti, anche solo come esseri umani, anche solo per ‘mangiare’ (da non intendersi in senso figurato).
Come reagire allora alla manipolazione, generatrice di quella subcultura che, in modo sempre più premeditato, sembra imperare ormai nelle nostre vite? Soluzioni facili e veloci non esistono, ma la reazione immediata ha una parola d’ordine: contromanipolazione. Lavorare davvero sull’educazione, favorire la collaborazione tra scuola e famiglia, fare formazione, promuovere la cultura a tutto tondo, non ovviamente il semplice nozionismo, ma agire su vari fronti per aiutare chi è privo di mezzi a costruire una propria identità, per rifuggire dalla violenza e dalla subordinazione fisica e mentale che sembra essere tornata di moda e che ci fa tornare indietro ad un Medioevo che dovremmo solo trovare nei libri di storia.