Questo buio feroce è quello della morte, e quello dell’attesa della morte, nascosto dietro il bianco asettico delle stanze d’ospedale, quelle dei malati, dei pazzi, degli esclusi. In una stanza bianca, vuota, spersonalizzata, si avvicendano i personaggi dell’ultimo spettacolo di Pippo Delbono, ispirato a un libro di Harold Brodkey, trovato per caso in Birmania, libro autobiografico sugli ultimi anni della vita di questo scrittore americano morto di Aids. E lo spettacolo ripercorre le fasi della malattia, dalle attese per i prelievi di sangue o per la risonanza ai ricordi e la nostalgia dell’infanzia, passando per la constatazione della futilità delle apparenze, per giungere alla desolazione della fine di tutto. Sentimenti e riflessioni evocati tramite immagini, uomini e donne senza volto, senza parole, spesso inespressivi, l’inespressività di chi soffre, di chi è rinchiuso, di chi è condannato. E’ un’evocazione che procede per accumulazione di frammenti di vita, di ricordi, di riflessioni, che acquisiscono tutto il loro significato tramite i gesti, le danze soffocate e primordiali dell’uomo, e tramite la musica, ora lenta e dolcissima, ora barocca e martellante, ora esaltata dell’effimero successo. Vi sono uomini e donne ridotti a reliquie dell’umanità, ma che ancora cercano nel movimento, nella danza, un residuo di vita, uomini ridotti a scheletri, in una nudità che è quella della malattia ma anche dell’anima, e poi uomini e donne che ripercorrono il successo, ma trasfigurato dalle voci deformate, dai corpi spogli, dagli urli e dai singhiozzi della verità, che alla fine emerge senza pietà. E la verità è che “la storia è uno scandalo come lo sono la vita e la morte”, che ci sono “uomini che muoiono, gli esclusi, i diseredati, affinché altri continuino a sentirsi liberi e felici nei loro appartamenti con aria condizionata”, affinché “noi” ci sentiamo liberi e felici, affinché “tu”, spettatore, ti senta libero e felice. “Liberi e felici” continua a risuonare nella sala, in un ripetersi ossessivo, che diventa tristezza, angoscia, vergogna. Così come risuona il grido, dapprima soffocato, poi sempre più intenso, ossessivo di quel “Guardatemi, scompaio”, il grido di chi avverte che “l’identità era un gioco” e che resta ancora poco, poco tempo per essere ancora presenti agli occhi degli altri e di se stessi. E intanto sfilano le immagini di tenerezza, le maschere che si abbandonano ai giochi dell’infanzia, quasi a cercare quell’innocenza, quell’abbandono, quell’amore dei sensi, che la vita ha cancellato, nel suo procedere verso l’egoismo, verso il consumismo, verso la finzione. E sfilano personaggi in sontuosi costumi d’epoca, ma dai volti inespressivi, trasfigurati, immagini ormai vuote di una sfilata privata di ogni senso, la sfilata di una vita che si è nutrita di illusioni, di apparenze, di negazione della verità. Ed eccola, alla fine, la verità: la morte arriva, tra uomini ridotti a maschere, coi volti bianchi, gli occhi e le labbra nere e gli sguardi rivolti al cielo, immobili, esterrefatti. E lui, l’uomo che muore, lui “guarda la morte e la morte lo guarda”, è “stanco della preghiera, della parola, della poesia e degli intrattenimenti”, sente il silenzio intorno a sé, sente la pace intorno a sé, sente quel “buio feroce” che è quello della morte, e si spoglia e danza, la danza primordiale dell’accordo dell’uomo con il mondo.
Ancora una volta, Pippo Delbono ci sorprende, ci scuote, ci commuove.
ROMA, TEATRO ARGENTINA, 3 OTTOBRE 2006
Visto il
al
Piccolo Teatro - Teatro Strehler
di Milano
(MI)