Macerata, teatro Lauro Rossi, “Racconti di giugno” di Pippo Delbono
UNA FAVOLA VERA
Pippo Delbono ci ha abituato a spettacoli che associano grazia e rabbia con rigore gestuale ed espressivo, in cui esplora le tematiche della diversità e dell'emarginazione (Il tempo degli assassini, Barboni), del potere costituito (Urlo), delle morti sul lavoro (il recentissimo La menzogna), oppure usa le parole di Pasolini per un omaggio personalissimo (La rabbia). Su di lui e sul suo modo di fare teatro molto si è scritto. Ora si aggiunge un nuovo capitolo, con la pubblicazione di “Racconti di giugno” per i tipi di Garzanti (ottobre 2008) nella collana “Le forme”, della quale vorrei citare almeno Giovanni Raboni “Ultimi versi”, Claudio Magris “Lei dunque capirà”, Mario Capanna “Il Sessantotto al futuro” e Paolo Lagazzi “La casa del poeta”.
Racconti di giugno è un monologo teatrale che ha debuttato il 25 giugno 2005 al teatro Belli di Roma all'interno della rassegna “Garofano verde” su invito di Rodolfo Di Giammarco, una specie di commissione d'opera. Giugno è il mese in cui il protagonista è nato e si sono svolti molti eventi cruciali della sua vita. Il sottotitolo, “Incontro con se stesso”, rivela subito trattarsi di una confessione. Una confessione senza reticenze. Con lingua precisa e leggera, con tono mai sopra le righe. Una favola vera che è, a tutti gli effetti, una sorta di emancipazione. Per mezzo del teatro.
Pippo Delbono racconta, seduto su una sedia davanti a un microfono. Compie un viaggio fra cronaca e memoria. Inizia spesso il suo periodare con “Io mi ricordo”, come se quei ricordi affiorassero alla mente uno dopo l'altro, senza un progetto, evocati dall'indistinto magma del passato.
È una linea quella che Pippo disegna e percorre, dal suo essere bambino in una famiglia cattolica alle prime esperienze in parrocchia e negli scout, dalla soffocante provincia ligure alle prime esperienze all'estero. La strada della droga è un cammino intrapreso per amore. Eppoi il lavoro e la malattia, gli amici e i colleghi. La rabbia e la solitudine. Su tutto la paura di essere le stessi e la necessità di avere una maschera. “La nostra storia era sempre stata segnata da un non coraggio di dirsi la verità, da un non coraggio di dirsi: “Ti voglio bene. Ti amo. Ho bisogno di te.” Da un certo punto in poi il nostro amore era stato celato da una maschera, da un non coraggio di essere sé stessi, da una paura di essere sé stessi. Forse questo corrispondeva a una generazione, a una cultura, a una morale che ti spingeva ad apparire altro da quello che in verità eri. Non è molto diverso da quello che succede oggi in realtà, soprattutto nel nostro paese”.
I rapporti interpersonali sono vissuti sempre con la priorità dell'elemento “umano”, che sia la regina d'Olanda, Pina Bausch o Arafat, un'insegnante del liceo oppure una coppia milanese incontrata per strada. Fondamentali le persone più vicine, un ragazzo scomparso, Pepe Robledo, Bobò, Gianluca, Nelson, gli straordinari (parola intesa proprio nell'accezione semantica di “fori dall'ordinario”) protagonisti dei suoi spettacoli.
Il fine è quello di cercare l'origine del fare teatro, che Pippo nel suo caso attribuisce alla vita ed alle delusioni e costrizioni che il vivere impone. Con coraggio si guarda dentro, con lucidità comprende ciò che scopre e con poca reticenza, salvo un velo di pudore, si racconta ad alta voce, confrontando il suo essere se stesso con ciò che lo circonda, nel presente e nel passato. Una confessione personale e professionale di grande spessore emotivo ed intellettuale. Si pensa, tanto. Si sorride e ci si commuove. Anche quando Bobò sale sul palco a ricevere gli applausi.
C'è un doppio piano nel monologo, o meglio due livelli di comunicazione: dal parlare in modo piano, quasi sussurrando, davanti al microfono, seduto sulla sedia, rievocando ricordi e fatti, alla declamazione in piedi di frammenti di teatro, suoi o di altri autori. Un doppio codice che nel libro è affidato alla parola scritta ed alle tante fotografie che, oltre le parole, raccontano una vita privata e una vita professionale. Qui miracolosamente afferenti l'una nell'altra.
Non mancano gli agganci al momento, Macerata in questo caso, i divieti di accesso al centro storico e il titolo della rassegna “Altri percorsi” su cui Pippo scherza, a ragione: “Perchè “altri” percorsi? Altri rispetto a che cosa? Perchè qui vengono spettatori con le sciarpe e le kefiyyah mentre nei “percorsi normali” ci sono signore in visone e uomini in giacca e cravatta?”.
Tra le musiche ho riconosciuto Tom Waits, Janis Joplin e la colonna sonora di Rabbia. I rumori sono quelli dell'acqua, versata, shakerata, lasciata cadere a terra. Acqua, vita. Parole, presenza. Uomo.
Efficace è la sintesi nel risvolto di copertina del bel volumetto azzurro Garzanti: “Un giorno è stato chiesto a Pippo Delbono di parlare dell'amore. Sono nati così questi Racconti di giugno, dove Pippo ripercorre la sua esperienza, i suoi incontri e le sue lotte, tra la vita e la scena. Lo fa con pudore e con rabbia. Commuove e diverte, in una ricerca della libertà furiosa e felice, dove ci sono il corpo e Dio, il teatro e la morte, l'amicizia e la rivolta, la disciplina e la grazia, il dolore più atroce e la risata irrefrenabile”.
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 25 novembre 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Cuminetti
di Trento
(TN)