I Ragazzi di Vita di Pasolini, con Lino Guanciale e diretti da Massimo Popolizio, tornano in scena a due anni dal loro debutto e colpiscono ancora con tutta la loro coralità, vitalità ed estremo realismo.
Lo spettacolo rimane fedele all'omonimo libro di Pasolini, mettendo in scena i personaggi, la loro lingua e la struttura narrativa. I Ragazzi di Vita, condotti in una maniera molto abile da Massimo Popolizio, passano infatti da un capitolo all'altro sviscerando brevi aneddoti che dicono molto delle loro vite, con realismo eclatante e mai giudicante.
A tenere il filo dei vari capitoli c'è un bravissimo Lino Guanciale, alter ego di Pasolini che si aggira tra una scena e l'altra, un po’ narratore un po’ spettatore anch'esso di quello spettacolo di vite ammassate e rumorose.
Roma in una scenografia essenziale
Roma non è facile da replicare in una scenografia e fortunatamente Ragazzi di Vita si apre in maniera estremamente minimalista ma in grado di offrire allo spettatore la possibilità di immaginare Roma con i suoi grandi spazi, le strade assolate, l’asfalto rovente, i vicoli stretti, il Tevere che scorre a tratti tranquillo a tratti impetuoso, ed il sole, così caldo e cocente da scandire i ritmi di vita degli abitanti.
A riempire questa scenografia, e protagoniste assolute, sono le storie raccontate a gran voce dai questi Ragazzi di vita. Ed è così che lo spettatore si ritrova immerso nell'atmosfera della Roma anni ’50 e rivive i tuffi nel Tevere, le risse per uno sguardo dato male, i lutti senza una vera tristezza perché "a Pietralata non si ha pietà manco dei vivi, figuriamoci per i morti”.
Protagonista di molte di queste storie è Riccetto, di cui seguiamo vari episodi che ce lo mostrano ragazzino ingenuo e furbo allo stesso tempo ma con più coraggio per salvare una rondinella che annega nel Tevere che Gervasio, un ragazzo che sta annegando nell’Aniene.
Il romano: una scelta di realismo
La lingua utilizzata dai personaggi, spesso in terza persona come a voler segnare un distacco narrativo, quindi più oggettivo, è il romano, o almeno quello che Pasolini sentiva come Romano. Un linguaggio che se da un punto di vista scenico e di fedeltà al testo si capisce perfettamente, rende i dialoghi a tratti difficili da seguire. Difficoltà che però rispetta e dà voce ad una fetta di popolazione che non era mai stata raccontata: la Roma di borgata, che viene alleggerita dalle tante interpretazioni corali di canzoni e dall'espressività così vera dei Ragazzi di Vita.