Milano, teatro alla Scala, “The rake’s progress” di Igor’ Stravinskij
UNA DISSOLUZIONE CINEMATOGRAFICA
Significativo è il legame tra la Scala e The rake’s progress, eseguita per la prima volta l'11 settembre 1951 alla Fenice dai complessi scaligeri diretti dallo stesso Stravinskij, che aveva lentamente composto la partitura (un atto all'anno) dopo avere visitato la mostra di William Hogarth allestita all'Art Insitute di Chicago nella primavera 1947, colpito dalla teatralità delle incisioni della serie “The rake's progress”.
Ora è in scena l’edizione di Robert Lepage che ha girato molti teatri europei (Brussels, Londra, Madrid, Lione) e nordamericani (San Francisco), una realizzazione dei canadesi Le projet ex machina che unisce la tecnologia video a un impianto e a uno stile recitativo tradizionali con molta efficacia.
Lepage ambienta la scena all’epoca in cui l’opera fu composta (il secondo dopoguerra) ma la trasferisce negli Stati Uniti, nel profondo sud. Ecco allora nella prima scena campeggiare, davanti a una pianura sconfinata e a un cielo di nuvole, una trivella petrolifera, che ricorda Il gigante con James Dean (è solo la prima di una serie di citazioni cinematografiche e pittoriche). I due protagonisti stanno lunghi sopra una coperta su un prato all’aperto, lui stivaloni e cappello a larghe falde, lei gonna a ruota e foulard in testa. L’apparire di Nick Shadow ha poco del demoniaco: scaturisce dall’interno del pozzo petrolifero, in fondo quello che si cerca è la ricchezza ed è proprio nella ricchezza, nell’ansia del possedere, che si trovano insidie demoniache, che possono irretire l’uomo, perdendolo (come nel Giocatore, in scena lo scorso anno alla Scala e premiato ora con l’Abbiati).
La messa in scena è un complesso gioco teatrale, centrato sul tema della redenzione attraverso l'amore e sulla libertà. E proprio qui sta l’elemento più prezioso del libretto, che in fondo racconta la storia della dissoluzione di un libertino: l’allontanarsi dalla propria vita, cedendo alle lusinghe del denaro, della fama, della notorietà.
Tom si trasferisce; veste un costume settecentesco (per esigenze di set), unica citazione a Hogarth. Egli accetta di sposare la donna barbuta per stimolare il gossip in vista dell’uscita di un suo film (ma in inglese quel “The turk” potrebbe suonare come “la turca” ma anche come “il turco).
Quando Nick stringe la mano a Tom c’è un corto circuito, un lampo che per un istante azzera il cielo. Poi tutto riprende come prima (ma mai come prima, impossibile tornare indietro in certi momenti, dopo certi accadimenti). Il cambio delle scene avviene in modo semplice ma con risultati efficacissimi: cambia l’immagine sul grande schermo a fondo scena, piuttosto allungato, ed elementi scenici si sollevano dalla pedana inclinata, creando un saloon, il bordello, l’ingresso di un cinema, l’esterno della casa di Trulove. Il tutto nella finzione, perché c’è una telecamera che riprende, come in un set cinematografico. Ed il regista è, ovviamente, Nick Shadows.
Notevoli sono i rimandi cinematografici o pittorici su cui gioca la regia. Del Gigante si è già detto, poi il magrittiano Impero delle luci con l’esterno casa di Trulove, Qualcuno volò sul nido del cuculo per la scena del manicomio (al centro troneggia un televisore), qua e là Hopper. Il finale è introdotto in un magazzino di luna park, dove sono accatastate insegne al neon.
Di grande effetto lo sparire di Tom e Mother Goose, letteralmente inghiottiti dal letto, oppure la roulotte gonfiabile, camerino sul set di Tom, oppure la scena in cui Anne guida una macchina sportiva per raggiungere il suo Tom in una notte tempestosa, con la sciarpa che svolazza fuori dal finestrino.
Così Lepage innerva e rende attuale il feroce moralismo di Stravinskij, che utilizza lo splendido testo di Auden e Kallman: il finale è a sipario chiuso coi cantanti avanti e le luci accese in sala. Nel complesso una regia che mantiene fedeltà agli snodi concettuali della vicenda, nonostante l’ambientazione particolare (scene Carl Fillion, costumi François Barbeau, luci Etienne Boucher, video Boris Fiquet, coreografia Michael Keegan-Dolan).
David Robertson dirige i complessi scaligeri, rendendo con misura ed efficacia lo stile settecentesco, i richiami neoclassici e romantici, resi con una consapevolezza e una dinamicità timbrica pienamente novecenteschi (con quei recitativi accompagnati dal clavicembalo che raccontano un percorso modernissimo nel libretto e nel linguaggio musicale). Il suono è vivo e vivace, dosato nel volume e mantenuto teso nel ritmo, assecondato da uno spettacolo incalzante che si lascia seguire con tensione cinematografica. Anche grazie alle capacità attoriali dei cantanti. Buono il cast. Su tutti i protagonisti, Andrew Kennedy (Tom Rockwell) ed Emma Bell (Anne), perfetti per linea di canto ed espressività. Molto bravi anche Natascha Petrinsky (Baba the Turk), William Shimell (Nick Shadow, poco luciferino e dunque ancora più pregnante come ingannatore), Robert Lloyd (Trulove) e Julianne Young (Mother Goose). Con loro Donald Byrne (Sellem, poco udibile e capelli alla Morgan) e Taihwan Park (Keeper).
Diversi posti vuoti in teatro, pubblico tiepido, applausi finali piuttosto contenuti per uno spettacolo invece veloce ed incisivo.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 22 maggio 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)