Il San Carlo di Napoli ripropone l’elegantissimo allestimento del Ratto dal serraglio creato da Giorgio Strehler per Salisburgo nel 1965, che mantiene intatto il suo fascino grazie al sapiente equilibrio tra vivacità del gioco scenico e complessità dei riferimenti culturali.
Il canto dei corpi senza volto
Entro i confini di un boccascena posticcio, che incornicia la rappresentazione in uno spazio più ristretto e più intimo, si susseguono invenzioni leggiadre e sorprendenti. Le scene e i costumi di Luciano Damiani (le prime adattate da Carla Ceravolo, i secondi rivisitati da Sybille Ulsamer) evocano, con mezzi semplici ma efficacissimi, un Settecento di sogno e di fiaba. Il cielo e il mare si confondono nell’indistinto nitore della luce che risplende costantemente dal fondale.L’Oriente, specchio obliquo nel quale si riverberano le utopie della sensibilità europea, è riletto attraverso lo sguardo sublime di Tiepolo. Forte è l’apporto della commedia dell’arte nelle numerose gags affidate a Osmin e Pedrillo, tutte fondate sulla dimensione mimico-gestuale e capaci di conferire dinamismo e varietà ai segmenti recitati, che risultano in tal modo sottratti al triste destino di meri interludi tra i numeri musicali e recuperati a una schietta pregnanza teatrale.
Ma l’idea più audace e più stupefacente di Strehler consiste nella gestione degli interpreti nello spazio. Quando parlano, i personaggi occupano una posizione lievemente arretrata e pienamente illuminata; quando eseguono i pezzi chiusi, avanzano verso il proscenio e si ritrovano al buio, ridotti a sagome bidimensionali, silhouettes, ombre cinesi. Questa soluzione produce due effetti di notevole impatto: da una parte esalta la magia del canto, reso quasi immateriale e perciò più penetrante; dall’altra conferisce una speciale eloquenza al movimento, che si manifesta nella sua essenzialità primigenia e nella sua purezza assoluta.
E quanta cura viene riservata al gesto!
Nello straordinario quartetto che chiude il secondo atto, ad esempio, le pose eleganti e leziose di Konstanze e Belmonte si contrappongono alla cinesi più spigolosa e brusca di Blonde e Pedrillo, così da evidenziare attraverso i codici corporei la divaricazione di livello sociale e, conseguentemente, di registro stilistico-espressivo tra le due coppie.
Un buon cast, una direzione opaca
Maria Grazia Schiava è brava e disinvolta nei panni di Konstanze e affronta con sicurezza le insidie della parte scritta da Mozart per un soprano stellare come Caterina Cavalieri. La sua interpretazione della funambolica Martern aller Arten suscita l’entusiasmo del pubblico napoletano; indubbiamente la prova è notevole, ma la voce dà in qualche punto l’impressione di mancare di pienezza, spessore e appoggio. Steve Davislim (Belmonte) risulta più robusto che raffinato e mostra qualche incertezza nei passi di agilità. Regula Mühlemann dona freschezza, brio e spigliata vivacità al personaggio di Blonde. Bravo anche Mert Süngü nel ruolo di Pedrillo. Il vero mattatore della serata è però Bjarni Thor Kristinsson che presta a Osmin una fisicità prorompente, un istrionismo esilarante e una vocalità esuberante.Poco convincente, invece, appare la bacchetta di Hansjörg Albrecht: il maestro tedesco dirige con precisione un po’ secca, senza entusiasmo e senza slanci, e spesso non riesce ad assecondare gli indugi e le accelerazioni dei cantanti. Nonostante la direzione un po’ piatta, lo spettacolo è godibilissimo e divertente, come confermato dal pieno consenso degli spettatori.