«In una triste mezzanotte, mentre mi attardavo, stanco e prostrato sulle pagine strane di un sapere oramai dimenticato...»: così inizia The raven (Il corvo), la poesia che Edgar Allan Poe pubblicò nel 1845 sul New York Evening Mirror, plasmando uno dei vertici della letteratura americana dell'Ottocento. L'argomento di questa cupa e tenebrosa lirica dall'andamento strofico, è quello di un amante in angoscia per la morte dell'amata Lenore; mentre nel cuore della notte medita pensoso leggendo antiche scritture, riceve la visita di un vecchio corvo, che una volta appollaiatosi sul busto di una statua, alle sue insistenti domande – e in specie, a quella se mai guarirà dal dolore - dà sempre la medesima, ostinata risposta: «Nevermore», cioè «Mai più». E difatti la presenza di quel corvo dagli occhi demoniaci non l'abbandonerà più, né il suo cuore potrà più sollevarsi dall'ombra mortifera che si aggira in quella stanza e nella sua anima.
I popolarissmi versi di The Raven hanno ispirato molti musicisti pop-rock, variamente progressisti. Ad esempio nel 1974 Freddy Mercury scrisse la canzone Nevermore, inserita in Queen II; due anni dopo gli Alan Parsons Project pubblicarono il loro primo album, Tales of Mystery and Imagination, contenente sette tracce su testi di Poe, tra cui questo; Lou Reed incise poi nel 2003 The Raven, altro concept album ispirato alla vita dello scrittore americano, e tratto dallo spettacolo teatrale POEtry scritto a quattro mani con Brian Wilson. Più recentemente il duo italiano Baustelle ha scritto Il Corvo Joe, che nel testo fa esplicito riferimento a Poe ed alla sua capacità di descrivere e svelare il Male; mentre anche gli Omnia – gruppo folk nordeuropeo – ne hanno inserito nell'album Alive! del 2007 una loro particolare versione.
E' ora la volta del compositore giapponese Toshio Hosokawa, nato a Hiroshima nel 1955, che per quanto mi risulta dovrebbe essere il primo autore “serio” che abbia voluto accostarsi ai foschi ed affascinanti versi dello scrittore di Boston. Il suo stile è molto peculiare, fondendo le avanguardie europee – si è formato musicalmente anche a Berlino e Darmstadt - con le radici musicali e culturali del suo paese: la dimensione spirituale zen, il misticismo dello shōmyō (i canti liturgici dei monaci buddisti), il gagaku (spettacolo di musica e danza per la corte reale), l'antichissimo apparato del teatro Nō, e persino l'arte raffinata della calligrafia, dove scrittura e pittura si fondono in un tutt'uno. Arte tipicamente orientale, quest'ultima, la cui pratica gli ha fatto comprendere – sono parole sue - «che la parte invisibile di un disegno è tanto essenziale quanto la parte visibile». Di qui una non comune attenzione al valore che il silenzio come mezzo espressivo può avere in una partitura musicale, dove «l'udibile non costituisce che una parte dell'insieme dei movimenti sonori. Il suono viene dal silenzio, e ritorna al silenzio...Senza silenzio non c'è suono. Senza suono non c'è silenzio». Ed in effetti spesso le sue creazioni partono e arrivano, con un percorso circolare, da un climax dove la rarefazione e l'assenza di suoni è determinante. Hosokawa ha poi studiato a fondo alcuni strumenti tradizionali del suo paese – come lo shō, un organo a bocca, o il kōto, delicato strumento a corde di seta - ed ha scritto molto per essi; ed ha inteso talora trasporne le particolari sonorità all'interno di composizioni destinate ai nostri organici occidentali, imprimendovi forti connotazioni simboliche e/o descrittive.
Nelle sue mani, le diciotto strofe di The Raven prendono la veste di un monodramma per mezzosoprano – voce dal timbro scuro, profonda ed intensa, carica di vibrazioni – cui è affidata una continua alternanza di prosa, di convulso declamato e di improvvise impennate melodiche, in un gradiente di dinamiche che vanno dal sussurro al grido lacerante. Pensata nel 2012 per il mezzosoprano svedese Anne Charlotte Hellenkant e presentata per la prima volta nel marzo 2012 a Bruxelles,in questa sua visione musicale predomina in definitiva una sorta di ardente sprechgesang, sostenuto da una febbrile e cangiante tessuto orchestrale affidato ad uno snello ensamble formato da un quintetto d'archi (due violini, viola, cello e contrabbasso), un quintetto di fiati (flauto, clarinetto, tromba, trombone e sassofono), più un pianoforte e timpani. Un commento sonoro portato avanti con tratto raffinatissimo, che in un procedere nervoso e carico di suspence – presente sin dai primi righi musicali, dove vengono richiesti caliginosi soffi nei fiati e sottili glissati armonici degli archi - accompagna, sostiene, esalta, amplifica ogni parola della cantante.
Siamo a Bolzano, per il terzo appuntamento di OPER.A 20.21, la stagione d'opera della Fondazione Haydn che rivolge gran parte della sua programmazione agli autori contemporanei. Qui The Raven – presentato in prima italiana - lo troviamo affidato alla versatile cantante americana Abigail Fischer, ed ai valenti solisti dell'Orchestra Haydn guidati con fine accortezza e mano ferma del giovane direttore e compositore giapponese Yoichi Sugiyama.
Il regista Luca Veggetti – che di Hosokawa ha curato nel passato anche la messinscena dei lavori Vision of Lear e Hanjo - ha ripensato per questa occasione lo spettacolo che aveva approntato nel 2014 al Lincoln Center di New York, dove alquanto diversa – come ci ha detto lui stesso - era la sua collocazione fisica. Ma non per questo a rinunciato ad esperimere tutte le suggestioni del teatro Nō che stanno alla sua base: lo spazio ora è quello del sotterraneo, e piccolo Teatro Studio bolzanino; a destra del pubblico una piattaforma inclinata, una specie di zattera di cinque metri per cinque che dà idea di uno spazio instabile ed insicuro; alla sinistra tutti gli strumentisti, disposti per lungo ed in semioscurità. Giochi sempre cangianti di moltissime luci – portano come la scenografia la firma di Clifton Taylor - illuminano od oscurano la scena, in un continuo variare d'intensità che ha come scopo quello di evocare tetre atmosfere ed inquietare lo spettatore. Idea di fondo molto indovinata, mi pare quella di affidare alla brava danzatrice/mimo Alice Raffaelli un ruolo che non è tanto quello del Corvo, quanto piuttosto di un alter ego che interagisce continuamente con l'interprete. Un modo accorto di raccogliere il suggerimento, insito nei versi di Poe, che il nero animale altro non sia che una proiezione della mente della voce narrante. Ed è forse per questo che la costumista Kathrin Dorigo fa indossare ad entrambe un identico abitino nero, dal design essenziale.
Molto perspicace anche l'idea di far precedere questo breve monodramma di una cinquantina di minuti da un'altra creazione di Toshio Hosokawa, porgendola come una sorta di preludio: Atem Lied, brano per solo flauto basso - strumento non facile e di rarissimo impiego, utilizzato qui anche con tecnica percussiva – dal carattere enigmatico ed onirico, eseguito per noi da un eccellente solista quale Manuel Zarria.
(foto di Alessia Santambrogio)