“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”, scrisse Tolstoj nell'incipit di Anna Karenina. Qui, parliamo però di Shakespeare (e ben duecento anni prima), ma le dinamiche sono sempre le stesse (o quasi). Compiendo un balzo letterario apparentemente azzardato, ci accorgiamo di una verità ormai inconfutabile: non è solo l’amore a guidare azioni e decisioni degli individui, all’interno ma anche al di fuori del proprio nucleo familiare. E quand’anche volessimo concentrare l’attenzione sull’amore, non è certo il parlarne in modo aulico o con termini roboanti che ne manifesta la vera intensità e, soprattutto, se questo c’è o meno.
E’ quello che Cordelia, la più giovane figlia di Re Lear, cerca di spiegare a suo padre che, in un momento di vanità senile, chiede a tutte e tre le sue figlie di pronunciarsi sul suo affetto per lui: tanto meglio sapranno esprimere la loro devozione, tanto maggiore sarà la fetta di eredità paterna alla quale potranno ambire. Da qui la storia, molto elaborata, con tanto di main e subplot per dirla in termini letterari, due trame che si intrecciano e si rafforzano l’un l’altra, restituendo al lettore (o allo spettatore, a seconda dei casi) il grande dramma shakesperiano.
Amore, devozione, incomprensioni, potere abdicato e potere bramato, ingratitudine e follia. I temi, come sempre, sono tanti, particolari ma universali, senza tempo. E, in quanto tali, sarebbe bene forse non compiere il passo più lungo della gamba, come quello di provare a rileggere un’opera di questa portata, mischiando in modo confuso tradizione e desiderio di modernità, di trasportare la contemporaneità in una struttura narrativa di per se' perfetta. La regia di Placido e Manetti, per quanto curata e abbastanza fedele al testo, prova a portare in scena una storia (o un intreccio di storie), collocate storicamente in un dato periodo, muovendosi però con una disinvoltura forzata tra antico e moderno, come a voler dimostrare quanto attuali siano ancora certi intrighi. Ridondante? Forse sì. La scelta del cast veleggia tra due poli opposti: da attori dall'esperienza più marcata (e si vede) a ruoli assegnati a figure ancora acerbe e poco credibili. Qualche innesto simpatico si vede qua e là: il rap del Fool/Brenno (benchè poco incisivo), un Edmund (Giulio Forges Davanzati) lascivo si, ma dal potenziale inespresso; forse una versione più crudele e feroce avrebbe probabilmente identificato meglio il personaggio, che sembra più spesso un rockettaro bello e dannato, sfuggito al suo palcoscenico e approdato, per sbaglio, su un altro. Lascia perplessi anche la scelta di abbandonare quasi del tutto i costumi d’epoca del primo atto, per arrivare ad altri più moderni e “particolari” (l’outfit aggressivo delle due sorelle cattive - poca pelle nera addosso come se fosse un secondo strato di epidermide): era davvero necessario?. La perplessità aumenta quando nella scenografia si ricorre a rovine che sembrano uscite dal set di Ben Hur, accostate a quella che sembra un’enorme aquila nazista e ai volti di Osama Bin Laden e Kennedy. La domanda è: perché? Tanti, troppi ammiccamenti, uniti alla voglia di sdrammatizzare a tutti i costi: pur divertendo una parte del pubblico, il rischio è che rimangano solo espedienti mal pensati in un calderone gigantesco di roba, che rimane in scena troppo a lungo e rischia di banalizzare l’opera originale.