Prosa
RENZO E LUCIA. QUESTO MATRIMONIO NON S'HA DA FARE

Se si riuscisse a togliersi d…

Se si riuscisse a togliersi d…
Se si riuscisse a togliersi dalla mente e a lasciare nello scaffale l’originale manzoniano, allora questo spettacolo si meriterebbe un 9. Ma siccome ciò è oggettivamente NON realizzabile, la mannaia cala ancora una volta impietosa e si porta via due punti e mezzo. Piena sufficienza, però, per questo adattamento della compagnia Quelli di Grock, per la regia di Valeria Cavalli e Claudio Intropido. Le note di regia avvertivano sulle intenzioni: essenza mantenuta, anche se riambientata; taglio di alcuni personaggi per dare più ritmo alla storia; lettura non letteraria ma da palcoscenico. Vero fino a un certo punto. L’essenza c’è (cattivone che impedisce il matrimonio-parroco vile-peripezie-trionfo dell’amore) ma è ciò che l’essenza contiene che ne cambia spesso il profumo. E’ difficile, davvero, recensire in poche righe un lavoro così complesso, dalle mille sfaccettature, basato a sua volta su un’opera, in tutti i sensi, oceanica. Ciò che si può dire è tutto e il contrario di tutto e forse il modo più agevole per dire la propria è schematizzare. Come a scuola. Come i ricordi di qualche lustro fa, sui banchetti e con l’Immortal Tomo in mano. Lucia. Completamente opposta all’alter ego cartaceo: più intraprendente (fuma!), più decisa, vive addirittura alcuni confronti con aria quasi ribelle e di sfida, come nell’incontro con la Monaca di Monza. Anche “l’addio ai monti”, che reca in seno il carattere della nostalgia, della tristezza e dell’accoramento, viene snaturato: non c’è traccia della dolcezza che ne era peculiare, ma trasborda un carattere disperatissimo, ansioso, troppo affannato. Bocciata. Renzo. Sostanzialmente invariato nella sua “lieta furia di un uomo di vent’anni”, rappresenta bene il giovane sanguigno manzoniano e, curiosità, fisicamente assomiglia moltissimo all’amico siciliano di Di Caprio in Titanic. Promosso. Don Abbondio. A parte l’intercalare dialettale milanese (azzeccato e funzionale), è quello che più s’avvicina al ritratto originario. Pavido e debole, lui e i suoi impedimenti e dirimenti, viene mostrato sempre immobile nel suo “seggiolone”, mentre i bravi e il Conte Attilio lo minacciano a urla e a sprangate. Immobilità fisica e mentale quindi (ottima intuizione), che però perde un po’ di cuore col taglio della scena della passeggiata col breviario. Come si fa a dimenticarsi dell’immagine del “se ne tornava bel bello…”?. Promosso. Azzeccagarbugli. Strepitoso nella riuscita scenica. Strappa risate e applausi grazie al suo tratto tra l’isterico e l’effemminato. Seduto su un trono, sventaglia continuamente con piume di struzzo (o simbolo dei capponi?), strepitando con ugola farinelliana. Ricorda un po’ Jonathan del GF5, forse anche un po’ Renato Zero, ma l’impatto finale è perfetto se comparato all’immagine che ne dà Manzoni. Geniale. Promosso con lode. Don Rodrigo. Raffigurato simbolicamente sempre seduto in un angolo del palco,è il solito cane descritto nell’originale, con quel piglio sempre urlato e rabbioso. Viene però oscurato parecchio dal cugino Attilio, più protagonista di lui. Magistrale la scena della morte: il virus Alfa (la peste) se lo porta via, lui e il suo bubbone e muore, sempre nel suo angolo, come un cane. Promosso. Attilio. Introduce lo spettacolo, tipo presentatore. Sempre presente, Causa Nera di tutte le peripezie e degli imbrogli che ne derivano, Attilio gira perennemente con un frustino in mano, simbolo di istigazione continua. Anche qui, ottima intuizione drammaturgica: Attilio è il vero fomentatore del tutto, come nel libro; è lui che istiga Rodrigo nella scommessa iniziale, è sempre lui che butta benzina sul fuoco sulla conquista di Lucia, è sempre lui che fomenta l’odio verso Padre Cristoforo. Promosso. Innominato. Sembra il Dr. House (zoppica e ha il bastone). La sua notte è vissuta in modo troppo incolore, senza la disperazione, il pathos e l’agitazione che ne erano il tratto distintivo. La recitazione è monocorde e si perde così tutto il tumulto dell’animo che ne ha fatto un grande personaggio. Bocciato. Padre Cristoforo. Lui è quello più stravolto rispetto all’originale: nel play teatrale è “Il Professore”, un uomo che si batte per la democrazia e la verità. In un certo modo, Cristoforo-Professore fa da filo conduttore agli intenti registici: si batte contro la società governata arbitrariamente e il suo motto potrebbe essere “lotta dura senza paura”. Segue i due Promessi Sposi, li aiuta, li rincuora, fino al colpo…di teatro finale. Statura del personaggio buona ma recitazione non eccelsa. Rimandato. Saltano personaggi secondari ma comunque importanti come Perpetua, Agnese e il Cardinal Federigo, a favore di alcuni fotogrammi di impatto come la madre di Cecilia (brava e accorata Giulia Bacchetta, anche nel ruolo della Monaca di Monza). Scenografie d’effetto, sempre di Claudio Intropido: metallo ovunque, grate e gabbie, simboli di costrizione, di libertà sotto chiave e di violenza mentale e fisica. Proprio la violenza fisica ha un ruolo di primo piano: botte, pestaggi, sprangate. La scena di Padre Cristoforo (Il Professore) e Don Rodrigo, quella del “verrà un giorno” viene tagliata e sostituita con un pestaggio selvaggio al frate, lasciato per terra esanime e sanguinante. Lavoro piacevole, da vedere, anche per confrontarlo con il capolavoro del Manzoni. Questo confronto non s’ha da fare, è vero, l’hanno detto anche i registi che l’intento era diverso. Ma che ci dobbiamo fare se ci viene automatico e naturale? Nonostante i proclami iniziali di lasciarlo nello scaffale, il libro te lo porti dietro eccome. E che libro. Milano, Teatro Leonardo, 24 novembre 2006
Visto il
al MTM - Leonardo di Milano (MI)