Lirica
RIENZI - L'ULTIMO DEI TRIBUNI

L'ULTIMO TRIBUNO

L'ULTIMO TRIBUNO

Nell'anno del bicentenario Verdi – Wagner onore all'Opera di Roma che mette in scena questa rara partitura wagneriana ambientata proprio a Roma, allestita in precedenza una sola volta al Costanzi nel 1969. Scritta nella seconda metà degli anni Trenta da un compositore poco più che ventenne, Rienzi dimostra già il genio e il talento che si riveleranno compiutamente in seguito pur nei debiti con una certa tradizione italiana, Bellini soprattutto, e francese, Meyerbeer e il grand-opéra in particolare. La vicenda tratta del tribuno Cola di Rienzo che nel XIV secolo fu un capo popolo in grado di sognare una democrazia compiuta salvo poi scivolare nella tirannide e finire assassinato. Divenuta celebre per la venerazione di Hitler (tanto che la famiglia Wagner gli regalò l'originale poi andato distrutto a Berlino), Rienzi racconta un medioevo che riprende la classicità ma visto dall'angolatura dell'uomo moderno.

Spunti che Hugo De Ana coglie alla perfezione e rappresenta con elegante essenzialità e chiarezza. La scena è nuda, una scalinata di ampi gradini sghemba domina lo spazio dove si accampano rimandi alla romanità classica, sia in proiezione che in oggetti: epigrafi, statue, bassorilievi a concretizzare il presente della storia. Splendida la Colonna Traiana su alto stilobate che si staglia contro il celeste del fondale (luci di Vinicio Cheli), cupo e incombente il portone smisurato preso dalla Rotonda, allusivi i due cavalli di bronzo e marmo importati dal Campidoglio.
I costumi mescolano con compiutezza antichità, medioevo, neoclassico e moderno: le spade si amalgamano ai fucili con la baionetta, i pepli vellutati dei senatori alle corazze medioevali, i fazzoletti al collo come nei novecenteschi libertadores agli elmi romani. I dettagli non sono trascurati, come i fasci dove, a un certo punto, vengono innestate le scuri.

Importanza viene data alla parola scritta, al senso della storia che si fa presente. Durante l'ouverture una pioggia di leggere compone una lunga epigrafe in latino e gli incipit degli atti sono scanditi da frasi letterarie tratte da Petrarca e altri; le lettere sono mescolate, quindi prendono un ordine compiuto per poi perderlo: all'uomo sta di leggere i fatti della storia che fonda il presente per costruire il futuro per sé e per gli altri. In alcuni momenti proiezioni aumentano il pathos della messa in scena: particolarmente efficaci le “onde” di soldati che corrono alla battaglia. In questa elegante sobrietà sono parsi eccessivi la testa mozzata e sanguinolenta di Stefano Colonna trattata come una reliquia dal figlio Adriano, l'adombrare un rapporto incestuoso tra Rienzi e la sorella e lo stupro di gruppo contro Irene nel finale. Efficacissimo il momento della “caduta” del tribuno presentato en ralenti. Meno comprensibile l'atteggiarsi di Rienzi a Salvatore con la croce resa con gli scudi durante il “Santo Spirito Cavaliere”. Non aggiunge nulla il parallelo nel programma di sala con Mussolini, di cui il protagonista a volte prende le pose coi pugni sui fianchi e il petto in avanti: la gestualità, più ingessata e prevedibile nei primi atti in cui si racconta l'ascesa di Rienzi, diviene più sciolta e convincente nel prosieguo con la caduta del tribuno. Un fuoco catartico avvolge tutto e tutti nel finale.

L'edizione romana è quasi la metà dell'originale, tolti i balletti, le pantomime e molte pagine cantate. Sicuramente risulta più “digeribile” per i contemporanei italiani, anche se non tutti gli snodi restano a fuoco e si perde la monumentalità del grand-opéra.
Stefan Soltesz sottolinea i passaggi romantici, sfrondando ove possibile quell'eccesso di retorica che renderebbe il tutto greve. Orchestra e coro (preparato da Roberto Gabbiani) lo seguono con convinta partecipazione.

Andreas Schager affronta la smisurata parte con giusti mezzi e intelligenza interpretativa, senza farsi sopraffare ma senza tirarsi indietro nel rendere con veemenza rivoluzionaria l'impeto passionale del protagonista, incantando in momenti commoventi come il ricordo del fratello sul violoncello di belliniano candore (e così anche più avanti verso il finale del secondo atto). Manuela Uhl mostra bella e piena voce per una temperamentosa Irene “indottrinata” dal fratello. Ottima Angela Denoke nel ruolo en travesti di Adriano reso con infinite sfumature: la voce bella per timbro ed estesa, l'interpretazione coinvolgente, la gestualità appropriata; dolcissima nel primo duetto con Irene sostenuto dagli archi ma forse il punto più alto resta il romantico In seiner Blüte bleicht mein Leben. Giusti Roman Astakhov (Stefano Colonna), Ljubomir Puskaric (Paolo Orsini), Jean Luc Ballestra (Cecco) e Hannah Bradbury (Un ambasciatore di pace, qui un adolescente col mappamondo). A completare il cast Milcho Borovinov (Raimondo) e Martin Homrich (Baroncelli). Con loro il coro di voci bianche del teatro diretto da Josè Maria Sciutto.

Pubblico numeroso e attento, molti applausi. Uno spettacolo nello spettacolo i costumi di De Ana esposti in vari ambienti del Costanzi relativi a precedenti allestimenti, non solo quelli di spettacoli che hanno debuttato al Costanzi (Iris di Mascagni, La fiamma e Marie Victoire di Respighi, rispettivamente messi in scena nel 1995, 1997 e 2004) ma anche Faust e Barbiere di Siviglia: vere opere d'arte che incantano gli spettatori. Bellissime le foto di Lelli e Masotti nel programma di sala che riproducono luoghi “renziani” di Roma.

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