Un uomo sempre con la valigia in mano. Sempre sul punto di partire, sempre sul punto d'arrivare. E' un pochino cambiato, questo ultimo Rigoletto di Alessio Pizzech che il Teatro Comunale di Bologna ha messo in scena.
Un uomo sempre con la valigia in mano. Sempre sul punto di partire, sempre sul punto d'arrivare. E' un pochino cambiato, questo ultimo Rigoletto di Alessio Pizzech che il Teatro Comunale di Bologna ha messo in scena a fine marzo. Una nuova produzione, pensata per la tournée in Giappone del prossimo giugno, dove il buffone verdiano non indossa più quell'ambiguo camuffamento da drag queen, che vide la luce al Festival Verdi 2015 e poi ripreso qui al TCBO l'anno dopo, che fece scorrere fiumi d'inchiostro. Ha ora un costume clownesco più ortodosso, e non usa più, in privato, quel grigio soprabito da travet che lo trasformava in un borghese piccolo piccolo.
Non ha neppure più la gobba, ma solo il braccio destro paralizzato, deforme e sanguinante, dapprima celato da un paramento di cuoio, che il Duca si diverte a tormentare. Political correctness, per non urtare il pubblico del Sol Levante? Non saprei. Fatto sta che la densa e dosata regia di Pizzech, pur funzionando tuttora benissimo, e conservando altri tratti salienti – come la trasformazione di Gilda in una bambola rosa, gelosamente custodita in un armadio/alcova fra altre simili poupées – ha perso per strada quello più eversivo.
Tre voci alla base di tutto
Molto importa l'impatto scenico del protagonista, che stavolta è Alberto Gazale. Un Rigoletto dalla voce un po' meno rigogliosa come un tempo, cui sfuggono talune mezze tinte, certi dettagli; ma che comunque domina ancor benissimo la scena con una colonna di fiato sostanziosa ed una recitazione penetrante, scandita in ogni frase, ed una profondità interpretativa – maturata in tante prove - dalla magnetica presa sul pubblico. E che ben si merita il bis, richiesto a gran voce, della Vendetta. Al suo fianco la Gilda della giovanissima Lara Lagni, alla quale il personaggio calza assai bene.
Dal lato puramente vocale, nella madreperlacea condotta di canto niente da ridire. Forse un po' troppo bamboleggiante – ma la regia l'invita proprio a questo – e più scolasticamente compitata che veramente assorbita nell'intime corde. Ma tempo verrà, abbiamo di fronte una personalità ancor acerba ma promettente. Completa il trio di base Stefan Pop: e non si potrebbe ambire ad un Duca di Mantova più vocalmente luminoso, e più audace e ruffiano nella personalità scenica. Squillo argenteo, acuti distesi, legati e fraseggio disinvolti ed eleganti, fiati generosi che sostengono una festa di suoni ora leggeri ora corposi, abilmente sfumati, caricati di intense vibrazioni.
Nell'insieme, un cartellone ben equilibrato
Vediamo il corollario dei comprimari. Pur non essendo un basso profondo, Abramo Rosalen delinea uno Sparafucile ben controllato, fosco ed incisivo, mentre la Maddalena di Anastasia Boldyreva spicca più per avvenenza che per peso vocale. Disinvolti in scena gli altri: Abraham Garcia Gonzalez (Marullo), Nicolò Ceriani (Monterone), Rosolino Claudio Cardile (Borsa), Simone Marchesini (Ceprano), Aloisa Aisenberg (Contessa), Laura Cherici (Giovanna), Chiara Notarnicola (Paggio).
Ho lasciato per ultima la benfatta direzione di Matteo Beltrami, concertatore dal sicuro istinto teatrale: dote idonea a conseguire un concorde, armonico respiro tra orchestra e palcoscenico. E poi, ampia paletta di colori, con un fraseggio elastico risolto in buona varietà di tempi e di dinamiche, con pianissimo quasi impercettibili, rapinosi rubato, espressivi ritardando. Intelligenti gradazioni inserite in un vasto arazzo di suoni. E quindi pazienza se - non so perché - ci nega il raddoppio della cabaletta del Duca.