Quarantacinque anni dividono Nabucco da Otello, un arco temporale che segna l'alfa e l'omega (Falstaff a parte) del percorso creativo di Verdi. Idealmente, a far da perno si porrebbe la “trilogia popolare” aperta da Rigoletto: titolo che, nella maratona lirica d'autunno del Teatro Alighieri di Ravenna, è posta in mezzo ad esse. Una sorta di minifestival, un tour de force che mette in scena tre opere in tre giorni, per tre volte consecutive. Sforzo produttivo indubbiamente ammirevole per un teatro di provincia. Dietro il quale, però, manovra la corazzata del Ravenna Festival.
Bacchetta giovane e sorprendente
I bravissimi ragazzi dell'Orchestra Cherubini sono qui condotti dal trentenne direttore iraniano Hossein Pishkar – recente scoperta di Muti – che tesse per questo Rigoletto una trina orchestrale di estrema finezza e leggerezza, tutta condotta in punta di bacchetta. Non perde d'occhio nulla, sia quanto a particolari, sia nella visione generale; e sostiene il canto con felice souplesse, attentissimo al respiro degli interpreti, ricamando sotto e sopra la partitura con intonazione cameristica; e se queste son le premesse, l'aspetta una carriera assai lusinghiera. Peccato che, di contro, il bravo Coro Lirico Marchigiano, bardato di nero, sia esiliato sui palchi di proscenio, con un'incidenza sonora ridondante.
Andrea Borghini è un Rigoletto energico, molto intenso nel fraseggio, che ben ne rende l'ombrosa introversione e la sofferenza interiore. Gli riesce a meraviglia la cupezza di «Pari siamo», svolge con accento vigoroso tutta la drammatica scena che segue a «Han tutti fatto il colpo»; tuttavia, perseguendo espressività nella recitazione, finisce per debordare, eseguendo con eccessiva enfasi la cabaletta della vendetta. Giordano Lucà dà forfait per un'indisposizione, e lo sostituisce all'ultimo Giuseppe Tommaso, il Cassio di Otello. Conosce già la parte, e con grande coraggio (e con un pizzico di giovanile incoscienza) qui la debutta, entrando in scena si può dir senza prove. Non se la cava poi male, pur se è inevitabile – al di là di una voce fresca, agile, dal timbro accattivante, al di là della bella prestanza fisica – che tutto il personaggio, musicalmente parlando, non sia ancora ben definito. E poi gli manca il freddo cinismo, la briosa voluttà... Certo, non si gli poteva chiedere di più.
La Gilda di Venera Protosova si mostra morbida, eterea e luminosa nel timbro, e recitata con melanconico abbandono; ma la vorremmo più convinta e precisa nelle colorature e nei picchettati di «Caro nome». Antonio di Matteo è un'apprezzabile Sparafucile, fosco e statuario; Daniela Pini un'ottima Maddalena; il resto del comprimariato funziona bene.
Regia molto sensata
La regia di Cristina Mazzavillani Muti procede con ben dosata energia e sensatezza, creando un teso arco narrativo ed approfondendo ogni singolo carattere - anche quello del coro dei cortigiani - nel pieno rispetto dei valori di libretto e spartito. Molto 'teatrale' nell'impianto generale, avvince lo spettatore nell'intreccio con accorti tocchi scenici, senza mai calare di tensione. Ed è molto perspicace nell'utilizzare le garbate coreografie proposte dal gruppo DanzActori. Alla gradevolezza dello spettacolo contribuiscono le folgoranti video proiezioni ideate da Vincent Longuemare, Paolo Micciché e Davide Broccoli, che intrecciano vivide impressioni visive, antiche e moderne. E, in egual misura, gli eleganti costumi vagamente rinascimentali disegnati da Alessandro Lai.